Ventidue anni dall'omicidio di Beppe Alfano, tra clamorose rivelazioni e indagini archiviate

Ventidue anni dall’omicidio di Beppe Alfano, tra clamorose rivelazioni e indagini archiviate

Alessandra Serio

Ventidue anni dall’omicidio di Beppe Alfano, tra clamorose rivelazioni e indagini archiviate

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giovedì 08 Gennaio 2015 - 16:47

L'8 gennaio 1993 moriva a Barcellona, dilaniata dalla guerra di mafia, Beppe Alfano, un cronista che sapeva troppo. La nuova pista indicata dal pentito D'Amico e le inchieste passate.

Beppe Alfano era un cronista, un bravo cronista impegnato in un territorio difficile come quello di Barcellona Pozzo di Gotto, in anni bui come quelli della guerra di mafia, quando in riva al Longano clan avversi si affrontavano tra loro e gli uomini dei servizi segreti militari cercavano i capi mafia siciliani latitanti, nel tentativo di agganciarli per fermare la strategia stragista di Cosa Nostra. In ventidue anni, un processo concluso ha assicurato alla giustizia l’esecutore, l’autotrasportatore Antonino Merlino, e il mandate, il capomafia storico di Barcellona, Beppe Gullotti. E molte altre inchieste, degli investigatori pubblici e privati, hanno indicato che dietro si nascondevano altri scenari, che forse qualcosa non è stato ancora raccontato, insabbiato per non sollevare troppa polvere, su quegli anni di fibrillazione, trattative segrete e fucili spianati.

Proprio oggi a Barcellona Pozzo di Gotto la figlia Sonia ricorda Beppe Alfano, parlando di lui e del suo lavoro agli allievi dei licei classico e scientifico Medi e Valli. Proprio in questi giorni la Procura di Messina, in particolare i sostituti della Dda Vito Di Giorgio ed Angelo Cavallo, si preparano a tirare le fila della terza inchiesta, ancora aperta dopo tre richieste di archiviazione, sulle piste alternative sin qui scritte. Non è un anniversario come gli altri, quindi, questo ventiduesimo dall’omicidio di Beppe Alfano, il nostro corrispondente da Barcellona Pozzo di Gotto freddato a colpi di pistola la notte dell’8 gennaio 1993, davanti la propria abitazione. La Procura di Messina sta cercando i riscontri alle dichiarazioni dell’ultimo pentito barcellonese, l’ex capo dell’ala militare Carmelo D’Amico.

Il collaboratore di giustizia quarantatreenne ha infatti rivelato una nuova, clamorosa verità rispetto a quella scritta sino a qui, sul delitto del cronista. A cominciare dall’identità del killer. Non sarebbe stato Merlino, che sta scontando la condanna all’ergastolo, a freddare Alfano, ma un’altra persona. C’è di più: D’Amico ha rivelato anche i retroscena dell’omicidio di Antonio Mazza, editore di TeleNews, l’emittente locale per la quale collaborava il cronista. Mazza fu freddato pochi mesi dopo Alfano, e fino ad oggi non era emersa una sola traccia per individuare autori, mandanti, neppure il movente. Ora, invece, D’Amico si sarebbe autoaccusato del delitto. Il condizionale è d’obbligo, visto che la verità “altra” indicata dal collaboratore è ancora top secret, nascosta sotto i numerosi omissis di cui sono zeppi i pochi verbali sin qui depositati agli atti dei processi già in corso.

Ma gli sviluppi visibili paiono vicinissimi. Lo ha fatto capire la Commissione nazionale antimafia nel corso della sua ultima visita a Messina, due mesi fa. La presidente Rosi Bindi ha secretato l’audizione del procuratore capo della Dda, Guido Lo Forte, a proposito dell’assassinio, ma il vice presidente Fava è stato chiaro: ” Siamo vicini a scoprire il vero scenario e gli autentici mandanti ed esecutori”.

Dopo la condanna, diventata definitiva,di Merlino come esecutore e il capo mafia Peppino Gullotti come mandante, la famiglia Alfano non ha mai smesso di approfondire la vicenda, chiedendo che si facesse chiarezza sugli ulteriori scenari nei quali sarebbe iscritta la vicenda. Come detto fino ad oggi, però, le altre piste battute erano rimaste senza riscontri, e all’inizio del 2014 i pm Di Giorgio e erano vicini a chiedere per la terza volta l’archiviazione delle indagini aperte su spunto dell’avvocato Fabio Repici. Per non lasciare nulla di intentato, i magistrati chiesero agli investigatori di risentire tutti i testimoni di allora: i colleghi di Alfano, gli inquirenti allora a lavoro a Barcellona e con i quali aveva rapporti, e di riesaminare la documentazione relativa al delitto. Un’opera minuziosa che non stava dando i frutti sperati.

Poi, questa estate, la svolta: Carmelo D’Amico, dopo tre anni al regime del carcere duro, si pente e si autoaccusa di 45 omicidi, parla di estorsioni, di legami tra la “cupola” di Barcellona e le istituzioni della città del Longano, le logge, gli ambienti affaristici. D’Amico, titolare di una impresa edile, legato a doppio filo agli altri boss barcellonesi ma anche a Tindaro Calabrese, irriducibile boss della frangia di Mazzarrà Sant’Andrea, rivela tra le altre cose che Merlino, autotrasportatore impegnato, tra gli altri lavori, nello smaltimento degli scarti di lavorazione degli agrumi, non è l’assassino del giornalista. Subito dopo le sue rivelazioni, i magistrati che lo ascoltano hanno incontrato i colleghi che si occupano del processo sulla così detta “Trattativa”. Oggetto del colloquio: l’operato degli 007 a Barcellona negli anni dell’omicidio Alfano. Gli agenti dei servizi in quegli anni cercavano infatti a Barcellona il boss catanese Nitto Santapaola, allora latitante. Una pista, quella della latitanza di Santapaola della quale forse Alfano sapeva, o che comunque avrebbe determinato il depistaggio delle indagini sul suo omicidio.

Negli anni scorsi soltanto due altri pentiti avevano parlato di Alfano. Il barcellonese Maurizio Bonaceto, che aveva “discolpato” Merlino salvo poi ritrattare, infine dichiarato incapace di intendere e volere, dopo un tentativo di suicidio. E il catanese Maurizio Avola, che aveva parlato della latitanza barcellonese di Nitto Santapaola. Anche questa inchiesta, nell’ambito della quale erano state depositate le intercettazioni effettuate dal Ros dei Carabinieri nel ’93, era stata archiviata senza un nulla di fatto, e il processo che vedeva imputato il boss barcellonese Sem Di Salvo, accusato di aver favorito la latitanza del capomafia catanese, era finito con l’assoluzione.

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