Mafia a Messina e azioni di contrasto: primo incontro di "Le(g)ali Si Può"

Mafia a Messina e azioni di contrasto: primo incontro di “Le(g)ali Si Può”

Mafia a Messina e azioni di contrasto: primo incontro di “Le(g)ali Si Può”

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giovedì 04 Maggio 2017 - 14:21

L'incontro formativo ha proposto una panoramica sulle infiltrazioni della criminalità organizzata in città, sull'importanza della denuncia e della cittadinanza attiva Tra i relatori il procuratore di Barcellona Emanuele Crescenti, il testimone di giustizia Gaetano Saffioti e Marco Pandolfo, figlio di un neurochirurgo assassinato dalla 'ndrangheta.

“Io guadagno 50 mila lire ogni volta che porto un panetto di droga, con quei soldi mantengo la mia famiglia, cosa me ne può importare di andare a scuola”. Questa frase, pronunciata da un ragazzino di Giostra qualche anno fa, è un episodio di cronaca cittadina ed è il simbolo di come molti giovani cresciuti nell'ambiente della criminalità organizzata siano convinti di non avere un'alternativa. Con il messaggio che chi vive questi contesti, invece, un'alternativa ce l'ha ha preso il via stamattina il primo seminario del progetto “Le(g)ali si può” organizzato dall'associazione Bios (capo fila del progetto) e dall'Istituto Centrale di Formazione di Messina (partner progettuale) e dedicato al tema “Legami mafiosi. Strategie di infiltrazione e possibili azioni di contrasto”. A introdurre l'argomento è stato il direttore dell'Istituto Marianna Malara che si è soffermata in particolare sulle due direzioni che intende seguire il progetto in questa sua prima fase formativa: da un lato la conoscenza di come la criminalità organizzata si insinua nei territori e di come si possono creare concrete occasioni di vita diversa, dall'altro la testimonianza coerente che ognuno, nelle piccole grandi azioni quotidiane, può diventare un modello di legalità da imitare. A sintetizzare il cuore e gli obiettivi del progetto è stata Giuliana Grillo, rappresentante dell'Associazione Bios «Da anni ci occupiamo di giovani e in questo progetto abbiamo scelto di farlo in modo innovativo chiedendoci soprattutto quale fosse il modo più semplice ed efficace per trasmettere il valore della legalità. Abbiamo scelto di dare risposte – ha detto la Grillo – per questo oltre alla fase formativa cominciata oggi, il passaggio successivo sarà quello di agire sul territorio, sui quartieri a rischio, proporre un'alternativa, recuperare e reinserire soggetti che non credono di avere un'alternativa». A moderare i lavori dell'incontro è stato il cronista Nuccio Anselmo che ha esaminato il tema con il procuratore di Barcellona Emanuele Crescenti, il professore di Diritto Costituzionale Giacomo D'amico, Ignazio Lembo della Fondazione Don Pino Puglisi, la “vittima di mafia” Marco Pandolfo e il testimone di giustizia Gaetano Saffioti.

FOCUS SULLA CRIMINALITA' A MESSINA. A fare una panoramica sull'estrema sottovalutazione degli episodi criminali in città è stato il procuratore Crescenti «La tendenza – ha spiegato – è sempre stata quella di considerare Messina una città “babba” e questo ha comportato un duplice danno: l'abbassamento della guardia sui fenomeni mafiosi e la riduzione delle risorse destinate al contrasto, ne è ultima prova la soppressione della Corte d'Appello. Invece data la sua importanza dal punto di vista storico e geografico – ha detto il procuratore – la città è stata sempre al centro degli interessi mafiosi. E' un crocevia e si trova al centro tra la mafia catanese, quella palermitana e la 'ndrangheta calabrese che è adesso l'organizzazione più potente, avanzata ed economicamente forte. Messina è subito diventata una piazza per la ndrangheta e nelle indagini che mi è capitato di condurre sul traffico di stupefacenti – ha chiarito Crescenti – il 90% della droga arrivava dalla Calabria, con le moto d'acqua, anche d'inverno. Messina – ha continuato il procuratore di Barcellona – è stata poi sempre considerata come una metropoli intellettuale e nei confronti dei messinesi, i calabresi hanno avuto una sorta di soggezione culturale che oggi sparita. Ne è stata dimostrazione l'Università di Messina, dove molti calabresi collegati alle 'ndrine studiavano per portar a casa un titolo che nel loro paese gli avrebbe dato prestigio, ma nel contempo molti di loro sono riusciti a influenzarne e determinarne i meccanismi, prova ne sono le tante indagini effettuate su omicidi e armi. Dimenticare queste circostanze – ha concluso Crescenti – significa sottovalutare un crocevia criminale che resta importante, per questo bisogna lavorare a fondo nelle parrocchie, nella scuola, nei centri sociali, per creare dei miti positivi, proporre scelte di comportamento oneste e far capire la vita non deve essere corsa velocemente per 100 metri, ma è una lunga maratona dove al traguardo si arriva con le proprie forze»

CITTADINANZA ATTIVA E DENUNCIA. A concentrarsi sulle possibili azioni di contrasto sono stati due rappresentanti degli enti che stanno collaborando alla realizzazione del progetto: il docente di Diritto Costituzionale Giacomo D'Amico per l'Ateneo di Messina e Ignazio Salvo per la Fondazione Don Pino Puglisi. «Il rischio, spesso, quando si trattano questi temi – ha spiegato D'Amico – è quello di cadere nella banalità e invece bisogna mirare soprattutto ad azioni concrete, al cuore del problema che probabilmente è l'importanza della partecipazione a una vita legale e la riduzione delle diseguaglianze per fugare i rischi di infiltrazione». A soffermarsi sull'importanza della denuncia, in particolare nel settore dell'usura è stato Ignazio Salvo che ha snocciolato alcuni dati relativi all'attività della Fondazione «Abbiamo due sedi e da quando siamo nati abbiamo erogato 347 finanziamenti a favore di vittime dell'usura per un massimo di 30 mila euro a denunciate e per un totale di 6 milioni e 94 mila euro. In 25 occasioni ci siamo costituiti parte civile nei processi scaturiti dalle denunce nei confronti di aguzzini che sono stati tutti condannati. Uno tria i dati più preoccupanti è che su 10 persone che si presentano da noi due non denunciano perchè hanno paura, le restanti perchè considerano gli usurai “amici”».

LE TESTIMONIANZE. A concludere il seminario sono state le toccanti testimonianze di Marco Panfoldo, figlio di neurochirurgo ucciso per non essere riuscito a salvare la vita della figlia di un boss e Gaetano Saffioti, imprenditore calabrese che ha denunciato 48 persone appartenenti a 8 'ndrine diverse. «Ad oggi – ha detto Pandolfo – il movente più plausibile per la morte di mio padre è la pista della vendetta da parte della 'ndrangheta e anche se mio padre è morto fisicamente ma mano mafiosa, la mia famiglia non è vittima di mafia e in questi anni ho capito che l'indifferenza è un male maggiore rispetto al capire che si può essere colpiti dalla mafia anche quando si sta svolgendo la propria professione». «La 'ndrangheta – ha detto invece Saffioti – esiste perchè noi la facciamo esistere e dovremmo chiedere soprattutto scusa ai giovani per non avergli saputo dare un mondo sano. Io mi sono liberato dall'oppressione della 'ndrangheta perchè non volevo insegnare a mio figlio come si vive in un mondo malato, ma il maggiore rischio che si corre facendo questa scelta non è quello di mettere a repentaglio la propria vita e quella di chi ci sta vicino, ma quello di essere emarginati anche da chi potrebbe farti continuare a lavorare. Io ho scelto di denunciare e liberarmi, nonostante i tanti ostacoli incontrati dopo e le tante cose che non sono cambiate, perchè non è giustificazione non fare nulla, pensando di poter fare troppo poco».

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