Giuliana Sgrena si racconta a Tempostretto.it

Giuliana Sgrena si racconta a Tempostretto.it

Claudio Staiti

Giuliana Sgrena si racconta a Tempostretto.it

Tag:

giovedì 08 Settembre 2011 - 13:27

La giornalista interviene a tutto campo

Giuliana Sgrena, politica, scrittrice, giornalista de "Il Manifesto", nella sua carriera di cronista, ha avuto modo di realizzare numerosi resoconti da zone di guerra, tra cui Algeria, Somalia, Afghanistan ed Iraq. Mentre si trovava a Baghdad per realizzare una serie di reportage per il suo giornale, il 4 febbraio 2005 è stata rapita dall'Organizzazione della Jihad islamica. E’ stata liberata dai servizi segreti italiani il 4 marzo, in circostanze drammatiche che hanno portato al suo ferimento e all'uccisione di Nicola Calipari, agente dei servizi di sicurezza italiani. Si è occupata particolarmente della condizione della donna nell'Islam, tema sul quale ha scritto un libro. Il 7 Settembre scorso ha partecipato al dibattito "Mediterraneo Mare di Mezzo" organizzato da Sel (Sinistra Ecologia e Libertà) durante la IIa Festa regionale che si sta svolgendo in questi giorni alla Villa Mazzini.

Tempostretto.it l'ha intervistata.

Lei ha scritto che «essere contro la guerra è sempre più difficile ed essere per la pace lo è ancora di più. Schierarsi contro la guerra senza se e senza ma è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere pacifisti». Può spiegarci questa espressione?

Io penso che oggi non ci sia più una cultura pacifista in Italia per diversi motivi. Un motivo è che, quando il pacifismo aveva raggiunto il suo massimo momento d’espressione, non solo in Italia, nel 2003, in occasione del conflitto in Iraq, non si è riusciti ad impedire la guerra, s’è fatta lo stesso. Perciò il pacifismo, sconfitto, è stato interiorizzato, il che non ha permesso di riprendere alcuna iniziativa. Un altro motivo è da ricondurre alla pratica delle cosiddette “guerre umanitarie”. Ho seguito molte guerre e non penso possa esistere una “guerra umanitaria”, non si può fare una guerra dicendo che si è intenzionati a difendere i diritti umani o i civili, lo dimostrano tutte le guerre che sono in corso nel mondo, in cui, il 90% delle vittime sono civili e, tra di loro, la maggior parte sono donne e bambini. Però, l’aver accreditato una “guerra umanitaria”, come avvenuto nei Balcani e come sta avvenendo adesso in Libia, ha minato alla base la cultura pacifista che non è solo opposizione alla guerra ma è costruire un’educazione alla pace che si basa espressamente sulla non-violenza, mentre se tu approvi una guerra, chiaramente passi dall’altra parte, sostieni la violenza come forma giustificata…

Non trova quindi ammissibile il diritto di un popolo a liberarsi attraverso delle lotte armate, come quelle libiche?

In Libia non credo stia avvenendo una lotta per la liberazione, come invece è avvenuto in Tunisia ed Egitto, dove il popolo non ha usato armi, bensì una lotta per il potere. Ho giustificato una lotta armata per la liberazione, ma penso che adesso le lotte armate, anche non militarizzate, non abbiamo possibilità di successo, per la disparità dei mezzi bellici in campo. Ma, in questa fase, tutte le lotte armate che ho visto sono militarizzate e si usano le armi anche per reprimere chi non accetta le imposizioni di questo movimento armato. L’ho visto in Iraq, dove i gruppi armati sunniti dicevano alla gente di non andare a votare alle elezioni, altrimenti avrebbero tagliato loro un dito. Quella non è vera lotta armata, è militarizzazione del territorio ed è incompatibile con uno sviluppo democratico. Così è stato in Libia, dove, forse, all’inizio, è nato un movimento di ribellione contro la dittatura per la democrazia, ma, nel momento in cui questo movimento è stato militarizzato, ha incominciato a lottare non più per la democrazia ma per il potere.

Rimanendo sulla Libia, l’episodio dei giornalisti italiani rapiti, poi liberati, ci rimanda alla sua vicenda. Troppo spesso i giornalisti diventano oggetto di scambio nelle dispute intestine, secondo lei, questo perché avviene?

Penso che la confusione abbia una ragione. Intanto c’è stata la militarizzazione delle informazioni con l’introduzione dei giornalisti embedded. Quando ero in Iraq, nel 2003, questi si sono istituzionalizzati. Per essere embedded, e cioè al seguito delle truppe, bisognava prima seguire un training, poi c’era un’agenzia che stabiliva chi poteva andare o no, e in più si doveva sottoscrivere, con l’esercito, un accordo che comprendeva la censura. Quando l’esercito americano è entrato a Baghdad, al suo seguito c’erano anche i giornalisti embedded e questo ha prodotto un inquinamento del nostro mestiere. Si è corso più volte il rischio di essere accusati da gruppi rivali di essere delle spie e io stessa sono stata accusata di questo prima che la mia posizione fosse verificata e ciò accade perché ci sono dei giornalisti che non si distinguono più dai militari. Aumenta il rischio e aumentano anche le notizie false perché non si ha un’ottica complessiva sui fatti ma solo un’ottica militare. Molti lo fanno per avere una maggiore sicurezza, anche se molti, essendo vicini all’esercito, sono rimasti uccisi, però questo non consente di fornire un’informazione indipendente. A me i miei rapitori dicevano: “noi usiamo ogni arma che abbiamo a disposizione, quindi usiamo anche te”.

Il Mediterraneo, quello che i latini chiamavano il “mare nostrum”, da luogo fisico e politico, rischia di diventare ormai solo un “luogo della mente”: quale possibile nuovo legame tra la sponda sud e la sponda nord?

Tutto quello che sta avvenendo sul mediterraneo ha cambiato la situazione, ha modificato i rapporti. Tutti i governi dell’Europa non avranno più di fronte dittatori a cui imporre qualcosa in cambio di corruzione, mazzette ecc. I governi saranno diversi e penso che la rivoluzione di popolo diventa proprio nei giovani dell’Europa un elemento positivo tant’è che assumono Piazza Tahrir (Il Cairo) come punto di riferimento, e ciò non era mai successo prima. Tra i giovani del mondo arabo e i nostri giovani ci sono diversi elementi di contatto: ricordo che anche loro indossano la maglietta di Che Guevara come simbolo di libertà e poi c’è anche il discorso materiale della ricerca degli sbocchi occupazionali di coloro che hanno studiato e che sicuramente riapriranno un ponte tra il sud e il nord del mediterraneo.

Il suo lavoro l’ha portata a percorrere le strade del Medioriente, dell’Africa ed entrare a contatto con culture e costumi molto diversi dai nostri. Come ha influito tutto ciò su di lei?

Mi ha aperto degli orizzonti. Io mi sono sempre occupata e ho studiato questi paesi e quindi quando ci sono andata, già li conoscevo abbastanza. Noi viviamo con la convinzione che i paesi diversi da noi non possano seguire uno sviluppo simile al nostro. Da quando ho iniziato a seguire l’Algeria nell’88, soprattutto le donne algerine mi hanno completamente cambiato questa visione che si basava soprattutto sul relativismo culturale secondo cui alcuni diritti valgono per noi, mentre loro hanno altre aspirazioni e lì invece ho capito che tutti ci battiamo per le stesse cose, che, se ci sono dei diritti che noi chiamiamo “universali”, allora devono valere per tutti. Al di là delle cultura, al di là delle differenze che se metti insieme diventano qualcosa di costruttivo, alla base siamo uguali. E se non ci consideriamo tali siamo in qualche modo razzisti: penso ci siano più differenze fra me e un tedesco piuttosto che fra me e un algerino.

Cosa si sente di dire riguardo al problema del precariato sociale e alla situazione di profonda crisi che, complice anche la classe politica, attanaglia la realtà italiana e che sembra non dare tregua?

Bisogna ribellarsi. Non si può accettare questa condizione. Ciò vale per tutti, ma in particolar modo per i giovani, perché saranno loro che pagheranno di più questa situazione. Se si continua così, saranno precari tutta la vita e questo non può certo garantire lo sviluppo di un paese, se un giovane è ricattabile per tutta la vita, non potrà mai essere libero di fare delle scelte. Perciò i giovani devono subito trovare il modo di uscirne fuori, trovare i canali dove esprimersi e dare speranza al futuro.

di Claudio Staiti

Un commento

  1. ricordo che a scuola per un compito di italiano, feci un articolo di giornale proprio sull’evento del rapimento della giornalista Giuliana Sgrena, e fu il miglior compito della classe.

    0
    0

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenta
Tempostretto - Quotidiano online delle Città Metropolitane di Messina e Reggio Calabria

Via Francesco Crispi 4 98121 - Messina

Marco Olivieri direttore responsabile

Privacy Policy

Termini e Condizioni

info@tempostretto.it

Telefono 090.9412305

Fax 090.2509937 P.IVA 02916600832

n° reg. tribunale 04/2007 del 05/06/2007