Lo Scornuso di Benedetta Cibrario

Lo Scornuso di Benedetta Cibrario

francesco musolino

Lo Scornuso di Benedetta Cibrario

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mercoledì 16 Novembre 2011 - 14:13

Lo Scurnusoviaggia per le invisibili e argentee strade del tempo senza averne desiderio né colpa”. La statuetta del Presepe che raffigura uno storpio, vergognoso di come la malattia l’ha ridotto, attraversa intatta il romanzo di Benedetta Cibrario, passando dalla Napoli borbonica fastosa e miserabile a quella sfigurata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale, fino alla Napoli di oggi, dentro una casa che odora di “libri, cera d’api e lavanda”. Lo seguiamo, nella sua immutata e dolorosa bellezza, per vicoli e palazzi, umide stamberghe e salotti sontuosi.

Dalle mani dell’apprendista Sebastiano, orfano di straordinario talento che lo modella scavando nella creta il suo amore per il padre adottivo, il pastoraio Tommaso Iannacone, finisce un secolo e mezzo dopo nel palazzo del duca di Albaneta e fra le mani del fedele Giovanni Scotti, impiegato postale e restauratore, che rimodella assorto arti spezzati, ravviva un incarnato, raddrizza un piede. Per poi arrivare fino Alla giovane Vicky, in una villa della penisola Sorrentina, come “regalo di benvenuto” di suo padre: rituale immutabile e promessa di una eternità impossibile.

È un omaggio alla bellezza, Lo Scurnuso, alla “curiosità e al rispetto per ogni forma d’arte” e alla “felicità di essere nati napoletani”. Una bellezza che è allo stesso tempo un’ancora di salvezza e uno schermo che tiene fuori gli orrori del mondo. Abita nelle dita gentili di Sebastiano, detto Purtualle, cresciuto nel chiostro del convento di Sant’Agostino a Caserta e, ancora bambino, ceduto dalla badessa al pastoraio Tommaso Iannacone come risarcimento per un lavoro non pagato. Lo invade tutto e allo stesso tempo lo protegge, perché “della vita gli bastava e avanzava quello che scolpiva nella creta. Tutto il resto non faceva per lui”. Se la realtà, fuori, brulica e sfugge alla comprensione, non resta che “fermarne dei frammenti nella cretaper consolarsi. È per questo che Sebastiano ritrae Tommaso Iannacone: semisdraiato, con una gamba allungata e l’altra piegata, i mani e i piedi contorti nello spasmo della morte. “Scurnuso”, perché “si mette scuorno” per come è diventato.

Ed è ancora per questo, per trovare un senso a un’esistenza fatta di compromessi, che un secolo e mezzo dopo ilcardinale Francesco di Belmonte diventa collezionista di pastori: e questa bellezza, celestiale e demoniaca, gli entra dentro come una folgorazione. Sarà il duca di Albaneta a vendergli il presepe che da anni colleziona, mantiene e allestisce: l’ultimo pezzo di un patrimonio smembrato per offrire alla famiglia del figlio – che ha sposato una ragazza ebrea – la possibilità di sfuggire alle leggi razziali e rifarsi una vita negli Stati Uniti.

Così, mentre su Napoli cadono le bombe, in un mondo che sembra disintegrarsi piano piano, dissolto nella stanchezza di aspettare “promesse che non si compiono, miracoli che non accadono”, lo Scurnuso e le altre statuette restano lì, intatte. Dentro c’è tutta Napoli, quella vera, immune agli orrori della guerra. E sarà quel folle e insensato rituale, del cardinale che continua ad allestire il suo presepe, del fedele Giovanni Scotti che si prende cura dei preziosi personaggi che lo compongono, incurante delle sirene che annunciano un bombardamento, a “conservare qualcosa di fragile e inutile quando tutto il resto affonda”. Perché “ogni cosa, anche la più effimera, chiede di essere eterna”. E allora, con la stessa ossessiva tenacia, Annina, la moglie di Scotti, continua ad apparecchiare il vestito di grisaglia nera del marito ogni sera, a cancellarne le macchie invisibili e a stirarne ogni piega. Vicky conserva lo Scurnuso tra i suoi tesori: nella speranza che “nulla cambi”: le abitudini, i suoni, gli odori. E così, la statuetta dello storpio dalle guance scarne che sembrano vive, diventa un ultimo, disperato anelito per non farsi travolgere dal “nulla”: anche perché, come riflette Annina tra sé, “le uniche cose che perdiamo realmente sono quelle che noi stessi consideriamo perdute”.

L’autore

Benedetta Cibrario è nata a Firenze nel ‘62. È cresciuta a Torino, dove si è laureata in Storia del Cinema, ed è vissuta a lungo in Inghilterra, ma la sua vera residenza è la Toscana, terra alla quale è molto legata. Con Rossovermiglio (Feltrinelli 2007) ha vinto il Premio Campiello 2008. Per Feltrinelli ha pubblicato anche Sotto cieli noncuranti (2009), vincitore del Premio Rapallo Carige per la donna scrittrice nel 2010.

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