“Il vortice dei linguaggi”: la resistenza della nuova letteratura di Luca Salza

“Il vortice dei linguaggi”: la resistenza della nuova letteratura di Luca Salza

Lavinia Consolato

“Il vortice dei linguaggi”: la resistenza della nuova letteratura di Luca Salza

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mercoledì 13 Luglio 2016 - 12:28

Presentato al parco Horcynus Orca il saggio dello studioso Luca Salza “Il vortice dei linguaggi. Letteratura e migrazione infinita”: argomento, quello della migrazione, “caldo”, che necessita un confronto non solo con la politica e l’antropologia, ma anche con la letteratura

Luca Salza è professore a Lille 3 di Letteratura italiana e Storia delle idee; il libro, “Il vortice dei linguaggi. Letteratura e migrazione infinita”, edito l’anno scorso da Mesogea, è nato da dei seminari di letteratura all’interno del dipartimento di filosofia svoltisi proprio a Messina del 2013. Joyce soprattutto, poi Gadda, Kafka, Hugo in letteratura, e Levi-Strauss in antropologia e molti altri sono gli autori di questa “letteratura e migrazione”, letteratura classica e mondiale, non più nazionale, ma dell’umanità tutta. “Questo libro parte da qui, tenta di verificare se questa impensata e impensabile associazione fra letteratura e migranti possa avere un senso e quale esso sia”.

Pierandrea Amato, docente di filosofia, ha presentato i colleghi, che sono intervenuti insieme all’autore nella sede della sala conferenze del parco Horcynus Orca. Giuliana Sanò, antropologa, ricercatrice e attivista con i migranti: un libro “utile” che si presta a letture stratificate tra antropologia, filosofia, letteratura e traduzione. Nessuno parla più inglese, parliamo tutti un “broken english”, una lingua fatta di suoni e movimenti, nel punto in cui, come diceva Manganaro “la traduzione è una danza”. Gianluca Miglino, docente di letteratura tedesca: un testo “spiazzante, il cui lo slancio politico si percepisce in tutte le pagine”. Il centro di questo saggio va a cercare il nesso tra linguaggio e “tempi a venire”, nel senso di ciclicità delle epoche politiche e/o antropologiche. Il passaggio tra straniero kafkiano e migrante sans papier è davvero breve, ed è proprio questa dislocazione nel tempo e nello spazio che rende particolare il testo di Salza, che cerca una letteratura di un “tutto mondo”, che non significa globalizzazione, ma arricchimento delle differenze nella totalità.

Mariavita Cambria, docente di lingua e letteratura inglese: il libro, molto spigoloso e militante, vuole rispondere ad una domanda: “può parlare il subalterno?”. Il migrante cambia e modella la lingua dell’approdo secondo le sue necessità. Il migrante per antonomasia, l’Ulisse di Joyce, è costretto a parlare la lingua coloniale dell’oppressore inglese, ed è da qui che nasce lo scarto, ovvero la pluralità e la contestazione. Il problema dell’utilizzo della lingua diventa una gabbia, che non consente la comunicazione. E di conseguenza “la traduzione”, come diceva Pier Paolo Pasolini, “è la speranza della vita, che può portare umanità”, dal momento che in un senso distopico, citando Salza, non vi è più comunicazione, ma solo Pubblicità.

L’autore, dopo la presentazione, ha gentilmente concesso di rispondere ad alcune domande.

Lei cita Levi-Strauss e la sua tesi antropologica della contraddizione umana che da una parte vuol riunire tutti, e, dall’altra porre delle distinzioni. Il punto in cui la globalizzazione cessa è quindi il momento in cui lo straniero diventa l’Altro per eccellenza e di conseguenza un capro espiatorio. Come può la letteratura, intesa come “resistenza”, salvarci da questa contraddizione?

Bisogna ridare credibilità alla letteratura, spesso persa in discorsi banali, può ancora oggi giocare un ruolo. La letteratura può ancora rappresentare un modo per rompere col reale, non adeguarsi al reale, è invece una letteratura che può dirci qualcosa sul mondo, farcelo conoscere e farci scontrare con esso e farci vedere un altro mondo che già esiste ed è già qui. La stampa è decadente, non vi è più quel giornalismo in cui scriveva anche Pasolini. Nel momento in cui la politica è incapace da un punto di vista umano di comprendere le sofferenze, ecco invece la letteratura può essere capace di essere un nuovo soggetto collettivo di enunciazione. Letteratura che vada oltre i confini nazionali, una letteratura la cui lingua è una lingua mondo. Cosa è la lingua mondo? La lingua mondo è una lingua spuria, meticcia, creola, che però appunto viene già usata, nei cantieri, per esempio, oppure nei centri di espulsione. Sulla base di questo materiale, si può creare una nuova letteratura.

Lei fa degli esempi giustamente molto colti della letteratura, ma buona parte della letteratura è diventata un’arte d’essaie, per pochi eletti; Joyce, che è il suo punto di partenza, è una lettura difficile, che può spaventare. Pensa che sia difficile comprendere l’Altro perché fondamentalmente non siamo più abituati ad un mondo colto, siamo in un periodo di decadenza?

L’idea è di non considerare gli autori come Joyce, come Gadda, degli autori per un pubblico colto. Un libro come “Il pasticciaccio” di Gadda, che oggi è considerato estremamente difficile, è stato in principio un testo popolare. C’è anche una sorta di abitudine, secondo me, che il pubblico dovrebbe riacquistare – e questo è un discorso sul mercato editoriale – a leggere in modo diverso, anche a fare uno sforzo nel leggere. Una cosa che si racconta sempre è che prima i contadini conoscessero Dante e Ariosto a memoria, mentre ora sono considerati dei testi difficili, però invece sono dei testi di letteratura che sono destinati, come tutta la letteratura, a tutti. Ridare credibilità alla letteratura significa anche ridare alla letteratura la facoltà di fare dei discorsi più complessi. In questo senso bisogna utilizzare questi autori non dal punto di vista filologico, ma come materiale contemporaneo, che ci dice quello che è il mondo oggi.

Si è parlato durante la conferenza di “utopia” nel senso più positivo del termine. Il “langage universale” agognato da Rimbaud non è una utopia, nel senso però ingenuo? Avere una lingua universale non lascerebbe comunque e inevitabilmente spazio a conflitti tra popoli?

La lingua universale non è una lingua creata a tavolino, questa è l’esperanto, lingua che è effettivamente una utopia. Questa lingua universale non è un’utopia, invece, perché è una lingua che sta nascendo dal basso, nei contesti lavorativi umili più difficili in cui si confrontano popoli diversi che hanno bisogno di una lingua comune con cui comunicare, come una specie di lingua franca, che esisteva nel Mediterraneo. La scommessa è che sulla base di questa lingua franca possa nascere una nuova letteratura. Secondo me non si può parlare di utopia perché si tratta di una lingua che già esiste e si sta creando, è anche il “broken english”, che si parla in tutto il mondo, nata dall’inglese colonialista. Joyce crea una lingua comune, non escludendone nessuna, ed è la stessa cosa che fa Dante creando l’italiano: ed è questo che mi interessa, una lingua costruita sulla base delle differenze.

Lavinia Consolato

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