Un giorno allo SPRAR: centro di accoglienza per rifugiati di Barcellona P.G.

Un giorno allo SPRAR: centro di accoglienza per rifugiati di Barcellona P.G.

Giuseppe Maio

Un giorno allo SPRAR: centro di accoglienza per rifugiati di Barcellona P.G.

sabato 06 Settembre 2014 - 17:22

Due rifugiati politici, ospiti dello SPRAR di Barcellona P.G., raccontano le loro storie: le loro esperienze ci invitano a riflettere sul dibattito tra cosmopoliti e particolaristi, particolarmente attuale al giorno d’oggi.

Il Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (SPRAR) è una rete di centri di seconda accoglienza atti all’integrazione sociale ed economica di rifugiati politici: uomini e donne costretti a fuggire dal loro paese, dove rischiano l’incolumità psico-fisica. Lo scopo di tale sistema non è dunque quello di fornire primo soccorso o assistenza immediata come CDA o CARA, ma è quello, molto più sottile e delicato, della reintegrazione e dell’ambientamento in un nuovo contesto (www.osservatoriomigranti.org) .

Martedì 2 Settembre 2014. Dopo aver incontrato alla sede SPRAR della Vecchia Stazione di Barcellona Antonella e le sue colleghe, affabili e disponibili insegnanti di italiano, ci rechiamo tutti assieme all’altro centro SPRAR della città, quello di via Immacolata. Qui incontriamo i ragazzi ospiti, tutti immersi nella loro quotidiana lezione di Italiano. Tra essi ci sono K. S. e B.T. che si sono offerti di raccontarci le loro storie.

Quella di K. S. è una vicenda particolarmente struggente e dolorosa: ha le lacrime agli occhi mentre ce la racconta. Contabile Pakistano di 30 anni, ha avuto un’esistenza tormentata fin da bambino. Ci parla in italiano, utilizzando qualche espressione inglese, lui che, oltre ad essere laureato, ha conseguito un master a Londra. Comincia con la storia delle angherie e delle violenze subite fin da bambino perché figlio illegittimo, non accettato dalla comunità del piccolo centro della regione del Punjab da cui proviene. Il padre di K. S., come lui stesso ci racconta, è un uomo molto rispettato nel suo villaggio, avendo li ricoperto la carica di sindaco. Altrettanto non si può dire per i suoi figli di secondo letto: K. S. è stato più volte vittima di tentativi di omicidio ad opera del fratello maggiore, figlio del padre e della prima moglie. Il padre, dunque, è costretto a farlo trasferire in un villaggio vicino, dove può andare a scuola e vivere un’esistenza tranquilla. Purtroppo però, in questa nuova scuola a maggioranza afghana, il piccolo K.S. subisce nuove violenze e abusi. Cambia nuovamente scuola, ma la situazione non migliora: i coetanei Pashtun (Afghani) arrivano perfino ad abusare sessualmente di lui. K. S. , nonostante tutto, non demorde: studia, legge, si converte abbracciando lo Shiitismo, una variante dell’Islamismo che guarda con maggior compassione ai deboli della società. Si laurea e frequenta l’Institute of Chartered Accountants in England and Wales, dove consegue un master. Ritorna nel suo paese per intraprendere la carriera politica, ma viene ostacolato perché Shiita. Inizia allora a lavorare come contabile in una grossa azienda pakistana, presente anche a Dubai e conosce un ragazza con cui si fidanza, benchè un parente stretto di questa sia famoso per l’odio nei confronti degli Shiiti. Decide dunque di andare a vivere a Quetta, una città a maggioranza Shiita, dove si sarebbe dovuto sposare con la fidanzata entro una settimana dal suo arrivo. Prima di trasferirsi, va a cena da un amico che vive a Quetta, ma il ritorno a casa si rivelerà devastante per K. S.: in un attentato ad una moschea Shiita, vengono uccisi la sua fidanzata, due sue sorelle, il fratellino e un’amica di quest’ultima. Distrutto e disperato, K.S. decide di abbandonare il suo paese. La sua prima destinazione è Mosca, ma il visto richiede troppo tempo. Ripiega allora su una Libia in fase di ricostruzione, per cui ha ottenuto un visto in soli tre giorni. Rimane 5 mesi in Libia, dove viene accusato di essere un ribelle Shiita e perseguitato. Il capo dell’internet caffè Libico in cui lavora però lo salva e lo aiuta a imbarcarsi per l’Europa. Dopo lo sbarco a Lampedusa, giunge a Mineo (CT) il 22 luglio 2013 e da lì viene trasferito dopo un mese, il 22 di Agosto dello stesso anno, a Barcellona P.G.. E’ ora in attesa del riconoscimento ufficiale del suo status di rifugiato politico. K. S. sorride nonostante tutto, è felice di essere a Barcellona dove, a differenza di Mineo (dove vi arano 5000 rifugiati), si trova in un contesto meno dispersivo e più familiare. Al momento sta scrivendo la sua biografia in inglese.

Altrettanto toccante è la storia di B.T., 22 anni Maliano proveniente da Bamako, la capitale. Diplomatosi in una scuola francese, è stato costretto ad abbandonare il suo paese, in seguito alla guerra civile da poco scoppiata in Mali. Da due anni infatti, ribelli islamici separatisti, dopo aver preso possesso della regione nord del paese, stanno provando a soverchiare il governo legittimo, arruolando giovani leve per stabilire uno stato islamico. Un giorno, B.T. viene accerchiato da un gruppo di miliziani jihadisti mentre si trova al supermercato. Uno dei guerriglieri gli prende la mano e gli dice: ”Andiamo in guerra, fratello”. B.T. risponde rifiutandosi di combattere una guerra fratricida contro i suoi connazionali e fugge via. Vorrebbe iscriversi all’università, ma non può perché i ribelli glielo impediscono: ha frequentato una scuola francese di stampo occidentale, particolarmente odiata da fondamentalisti musulmani e guerriglieri jihadisti . Non può fare altro che fuggire. Si nasconde allora a Bamako per tre giorni e decide, in seguito, di abbandonare il Mali. Dopo aver trascorso un lungo periodo in Sahara, arriva anche lui in Libia, la porta verso l’Europa. Anche la sua esperienza Libica è traumatica: riamane lì per 10 mesi, lavorando come giardiniere, quando la polizia, trovandolo senza documenti, lo incarcera. Grazie al suo capo dell’epoca, tuttavia, riesce a imbarcarsi per l’Europa. Dopo tre giorni terribili passati in mare, la guardia costiera riesce a soccorrere il barcone di B.T. e a scortarlo fino a Catania. Da lì il giovane Maliano è partito alla volta di Barcellona P.G., dove è arrivato da pochissimo. E’ attualmente in attesa dei documenti certificanti il suo status di rifugiato politico. Sta studiando l’italiano e , come ci confida sorridente la sua insegnante Antonella, entro due mesi parlerà perfettamente Italiano e sarà un vero poliglotta.

Le storie di questi due ragazzi ci procurano non pochi spunti di riflessione riguardo il dibattito odierno tra cosmopoliti e particolaristi, che sta accendendo la comunità internazionale. I primi, considerando gli esseri umani tutti uguali, si sentono in dovere di aiutare persone in difficoltà indipendentemente dal loro genere, dalla loro nazionalità ed etnia. I secondi, che tendono ad avere una visione “piramidale” del genere umano (nell’ordine: famiglia, amici, connazionali e per ultimi, se rimangono risorse, gli “altri”), tendono a privilegiare i loro connazionali in caso essi siano in difficoltà, lasciando gli stranieri per ultimi, se le loro possibilità glielo consentono. Le istituzioni internazionali, tra cui l’UE, sembrano aver preso una chiara posizione filo- cosmopolita: l’UE ha infatti stanziato il così detto FER (Fondo Europeo Rifugiati), che ammonta nel 2013 a oltre 26.402.572,55 Euro di cui 18.858.797,00 Euro costituiscono una quota comunitaria(www.interno.gov.it). Assumere una posizione intermedia tra cosmopoliti e particolaristi sarebbe auspicabile in un periodo come il nostro, caratterizzato da una grave crisi finanziaria e di conseguenza sociale nel nostro Paese. Non si può negare aiuto ad uomini e donne straniere in difficoltà, tanto meno lo si può negare a italiani e italiane nelle medesime condizioni di disagio economico-sociale.

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