"La cassata perfetta" di Fabio D'Angelo

“La cassata perfetta” di Fabio D’Angelo

Redazione cultura

“La cassata perfetta” di Fabio D’Angelo

Tag:

mercoledì 01 Aprile 2015 - 16:49

Un momento da dedicare a se stessi, un angolo dalle luci soffuse, per raccontarsi e raccontare, e ritrovarsi nei racconti degli altri. Inviateci pure i vostri lavori, romanzi o racconti a raccontodellasera@gmail.com: i migliori diventeranno Il Racconto della Sera.

La cassata perfetta

Fingere interesse non mi è mai pesato.

In fondo mi si chiede soltanto di assentire col capo, di ridurre gli occhi a due incoraggianti fessure e di produrre cadenzati gorgoglii di partecipazione: “ee… hmm mmm… a aaa”. Nell’incontro vis à vis il mio corpo si trasfigura e diventa palcoscenico, sulle cui assi si muovono con dopato vigore i sentimenti di volta in volta evocati dall’interlocutore. Sorpreso-rammaricato-divertito-sorpreso-rammaricato-divertito-sorpreso-rammaricato-divertito… Tediosa a leggersi, la ripetizione di risposte emotive è addirittura logorante quando è costretta ad assecondare gli stimoli dell’altro, il quale mi strappa con l’ansia febbrile del malato terminale alla mia radicata vocazione monodica, forzandomi a dissimularla con un opposto e rassicurante contegno madrigalesco.

Talento istrionico: questa l’unica risposta che mi riesca di concepire contro il nugolo minaccioso di vacuità che una vita spende per raccontarsi.

Istrionico talento: questa la sola difesa contro lo stupro inflittomi dalle opinioni che una vita sciorina per raccontare le altre, sempre premettendo, certo, una perversa professione di relativismo, quel secondo me cosparso di cenere nel quale, in realtà, si cela la fiamma di un dettato assoluto.

“Secondo me è una poco di buono. Lo dice persino mio marito, che per carità, non è che in trentacinque anni di matrimonio sia stato uno stinco di santo, ma sa, con i figli, le case, la barca… insomma, in fondo le sue scappatelle le tolleravo come si tollera il rutto di un bambino a un funerale. Mia nuora invece è proprio una zoccola… Oh, ma che dico? Mi scusi!”

“Secondo me fa uso di qualche sostanza. Non si spiega altrimenti il fatto che abbia deciso di lasciare tutto alla donna di servizio, non è da mio nonno. Che dice? Dovrei controllare se le pupille sono dilatate?”

Eppure non ho mai nutrito alcun dubbio sulla mia buona fede, senza la quale avrei lasciato certamente inevasa l’altrui richiesta d’ascolto, senza la quale avrei evitato di stancare il volto costringendolo in pose vivaci, come se realmente avesse una natura perturbabile, senza la quale mi sarei limitato a curare la mia cronica propensione all’indifferenza attraverso la dedizione esclusiva alla sola fonte di nutrimento spirituale che io fossi disposto a riconoscere: la cassata siciliana.

Le cassate chiedono di essere assaporate esattamente come le persone reclamano di essere ascoltate, con la differenza però che non pretendono nulla, nessuna forma esibita di partecipazione esteriore, nessuna parola di conforto, di ammonimento, persino di apprezzamento. Niente che debba essere dissimulato. Piuttosto la cassata siciliana rappresentava per me, dissimulatore incallito, una sorta di oasi fatta di alberi di pasta reale e laghi di ricotta, nei quali naufragare era dolce, sì, ma era anche conturbante soave esperienza dei sensi.

Lo confesso, la stessa parola cassata, sibilante delicato elisir, era sufficiente a sprigionare l’orgasmo delle mie papille imbevute di desiderio: provavo una sorta di sensuale appagamento persino nel contemplarle, tutte in fila sui banconi delle pasticcerie, presenze rassicuranti capaci di evocare ciascuna una storia diversa, un mondo altro. Il mio sguardo scorreva paterno sul profilo della frutta candita, sulla sua consistenza zuccherina; ora indugiava sul profilo familiare di un mandarino, ora scivolava sullo strato superiore di glassa. Le mie orecchie agognavano una voce e quasi sempre il dolce mi parlava, e lo faceva sussurrando; sussurrava che non ero solo. Lo ripeteva più volte e il suono di quel bisbiglio aveva il fascino di un incantesimo e il potere di disfare il nodo che teneva legata l’illusione: davvero mi sembrava di non essere solo, forse di non esserlo mai stato, e davvero mi persuadevo che quelli davanti a me non fossero volgari contenitori invisi a dietologi e salutisti, ma potenziali molecole del mio corpo, animate dalla nobile vocazione ad animarlo; erano me e io ero loro.

In fondo, cos’è che veramente cerchiamo negli altri, nelle cose, persino negli odori se non unicamente noi stessi? Non c’è nulla che ci interessi più di noi stessi. Fuori di me, non ho mai trovato neppure il barlume di un’aria familiare. La cassata siciliana era una magica salvifica eccezione.

Per anni ho sperato che la mia perpetua affinasse le sue assai scarse doti di cuoca e si decidesse a preparare un dolce in grado di onorare gli ingenti sforzi in cui mi prodigavo per istruirla: libri di cucina, tecniche di dolcificazione della ricotta, perfino dimostrazioni video su youtube offerte da gente preparatissima con vocazione da missionario. Abbiamo provato di tutto, ma, vuoi le sue origini cingalesi, vuoi la sua incompatibilità con l’universo gastronomico, alla fine mi ritrovavo sempre a sputare nel piatto il frutto pessimo di quegli esperimenti fallimentari.

“Nonno, perché sputi la torta? Non è buona? Settimana prossima io riprovo. Forse c’era poco curry in torta. Prossima volta di più”, scherzava la mia Ambiga, prendendosi gioco della mia ossessione, da lei giudicata infantile e disdicevole. “Secondo me la sua pancia è stanca di tutta questa ricotta. Vede che faccia gialla che c’ha?”. Osservazione, quest’ultima, inconfutabile, che dimostrava peraltro come Ambiga fosse una di quelle tipiche donne che azzardano diagnosi sulla base di impercettibili sfumature cromatiche del viso, finendo per collegarle inesorabilmente a un particolare della cucina che fatalmente viene ostracizzato, condannato in contumacia, senza che si abbia modo di impugnare la sentenza.

“Ambì, guarda che io la faccia gialla ce l’ho da cinquantotto anni! Questa il Signore mi ha dato e oramai me la tengo. Tu pensa piuttosto a chiedere al tuo Vishnu di farti la grazia, che qua solo quella ci può per farti cucinare come si deve!”

Ovviamente avevo anche tentato la strada della pasticceria, ma si era rivelata ben presto impraticabile a causa del mio abito: la gente tende a pretendere da noi un atteggiamento impeccabile, e un prete che ogni settimana spenda parte del suo denaro per soddisfare i suoi peccati di gola è quantomeno censurabile. I parrocchiani, del resto, sanno essere spietati se deludi le loro aspettative di santità. Un mio collega, sorpreso da una catechista mentre aspirava da una sigaretta accesa, fu a lungo vittima della gogna parrocchiale e per mesi dovette rinunciare a inserire nei suoi sermoni qualsiasi tipo di invettiva contro i vizi umani, limitandosi a qualche generica filippica contro la guerra e contro quelli che la fanno, contro quei tutti e nessuno, insomma, tra i quali non v’era fedele che potesse certo sentirsi incluso. Fu convocato perfino dal vescovo, ma alla fine gli fu comminata la pena di qualche decina di avemaria. Il vescovo è un raffinato fumatore di pipa.

Per quel che mi riguardava, sapevo per certo che, qualora mi fossi finalmente imbattuto nella cassata perfetta, me ne sarei nutrito fino a morirne, come Philippe Noiret nella scena finale di quel film, La grande abbuffata.

Finché un giorno – era Pasqua, il primo pranzo decente dopo quaranta giorni nervosissimi di austerità culinaria – portai alla bocca, alla fine del pasto, una forchettata del mio dolce prediletto e sperimentai con sgomento l’inatteso: niente, non provavo niente. Il sapore era perfetto: la ricotta era dolce al punto giusto, la frutta candita si scioglieva in bocca, la pasta reale non si attaccava al palato. Eppure niente. Riprovai con una seconda forchettata, ma avvertii la medesima sensazione di aridità e di solitudine.

Allora mi alzai, sudando freddo; pregai; piansi; pregai e piansi contemporaneamente, perché per la prima volta avvertivo tutto il peso del mio abito. Iniziai a odiarlo; me lo strappai di dosso come Caifa davanti al nazareno imputato: "Sei il figlio di Dio?" "Tu l’hai detto". Straaaaaap. E mi precipitai fuori, per strada, seminudo, urlando: Dio è mortooooo!

Non ho mai più toccato una cassata in vita mia. Adesso curo la mia cronica propensione all’indifferenza attraverso la dedizione esclusiva alla sola fonte di nutrimento spirituale che io sia disposto a riconoscere: il pollo al curry.

Fabio D’Angelo

Nato a Palermo il 21 settembre 1983 sotto il segno della Vergine – con tutte le conseguenze del caso –, ho deciso di laurearmi in Lettere moderne, o in una delle tante diciture equivalenti frutto della schizofrenia riformistica del Ministero di competenza. Ciò ha innescato una serie di esperienze – tre anni di ricerca universitaria, pubblicazione di articoli e di monografia, formazione in ambito archivistico, bibliotecario e redazionale, lavori precari in ambito archivistico, bibliotecario e redazionale – coronate dalla scelta di aprire una partita iva come “consulente editoriale”, il che, in parole povere, vuol dire che non avrò mai una pensione.

Prossimo racconto (7 aprile): "L'eredità" di Marzia Buceti

raccontodellasera@gmail.com

0 commenti

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenta
Tempostretto - Quotidiano online delle Città Metropolitane di Messina e Reggio Calabria

Via Francesco Crispi 4 98121 - Messina

Marco Olivieri direttore responsabile

Privacy Policy

Termini e Condizioni

info@tempostretto.it

Telefono 090.9412305

Fax 090.2509937 P.IVA 02916600832

n° reg. tribunale 04/2007 del 05/06/2007