"L’eredità" di Marzia Buceti

“L’eredità” di Marzia Buceti

Redazione cultura

“L’eredità” di Marzia Buceti

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martedì 07 Aprile 2015 - 15:24

Un momento da dedicare a se stessi, un angolo dalle luci soffuse, per raccontarsi e raccontare, e ritrovarsi nei racconti degli altri. Inviateci pure i vostri lavori, romanzi o racconti a raccontodellasera@gmail.com: i migliori diventeranno Il Racconto della Sera.

L'eredità

Tornando qui in treno dalla penisola, la ferrovia attraversa il massiccio montuoso calabrese in un susseguirsi di lunghe gallerie. Per questo, la vista dello Stretto non appare in maniera graduale, ma esplode all'improvviso all'uscita di uno di quei tunnel, e ti travolge. Credo sempre di sapere cosa aspettarmi, ma a sorpresa sento un tuffo al cuore e gli occhi riempirsi di lacrime, quando in basso scorgo l'immensa distesa d'acqua, a volte agitata, ma più spesso piatta come olio e luccicante per il sole, in cui, come un amo da pesca, s'insinua quella stretta lingua di terra bassa e sabbiosa.

La zona dei Margi sorgeva, come ancora oggi, fra i due laghi di Ganzirri e Torre Faro, proprio sulla punta estrema della Sicilia, che si affaccia sullo Stretto di Messina. Ai tempi dei greci e dei romani, era un'area acquitrinosa, malsana e piena di zanzare, ma presto fu bonificata e resa un bellissimo giardino di alberi da frutto e campi coltivati, cespugli fioriti e casette sparse.

Per i viottoli odorosi che si snodavano fra i poderi non c'era traccia della confusione cittadina. Tutto scorreva lento e cadenzato, in un'atmosfera di pace e serenità che, anche nelle giornate invernali o quando lo scirocco ululava impietoso, portava sempre con sé un che di leggero e di caldo. Nelle sere d'estate, gli uomini e i bambini si riunivano in gruppetti festanti, sotto i pergolati, per godere del fresco e della compagnia, e le donne si affrettavano a sbrigare la cucina per mescolarsi a loro. Fra il reale e il fantastico, battute facete, suoni di risate e di stupore, le chiacchiere riempivano l'aria, mentre i piccoli giocavano o dormivano al seno delle loro mamme. Al ritorno a casa, l'inebriante profumo della campagna stordiva gli animi ubriacandoli già di sonno.

Solo a un chilometro scorreva la vita un po' più agitata di Torre Faro, paesello di pescatori, squassato da tutti i venti, e battuto dai due mari, il Tirreno e lo Ionio, che proprio là davanti formano “il taglio”, il confine su cui si scontrano le due forti correnti e in cui si formano terribili gorghi. Questa linea è sempre ben visibile, come se i due mostri di Scilla e Cariddi fossero davvero perennemente appollaiati sulle due sponde, calabrese e siciliana, in attesa di ghermire i marinai più temerari.

In pochi posti al mondo, come qui, lo sguardo è libero di spaziare dalle colline alle spalle, al paesaggio lacustre, e poi al mare e all'altra sponda che chiude quasi tutto l'orizzonte, senza per questo imprigionarlo. Vagando con gli occhi, si ha ancora adesso, e allora doveva essere più intensa, la sensazione di poter sognare, volare lontano e in alto, ma senza il rischio di perdersi. Fra queste due sponde ci si sente protetti, quasi abbracciati, dalla terra e dal mare.

Questa propensione verso il fantastico, però, era consentita davvero a pochi, oltre che ai bambini, quasi fosse un impedimento in mezzo alle faccende quotidiane. La ‘za Menna era una donnina piccola ed energica, costantemente legata ad un mondo superiore, magico, i cui poteri premonitori si svelavano solo a tratti e in maniera inaspettata. Tutti ne avevano tanto sentito parlare, ma sapevano anche che la cosa si verificava raramente e, soprattutto, solo in relazione ai membri della sua famiglia. Per questo, nessuno si spiegava perché ultimamente la ‘za Menna fosse ossessionata da immagini che coinvolgevano una ragazza del paese.

Si trattava della bella Rosina, alta e snella, e con uno stuolo di ammiratori, ma ancora decisamente giovane per pensare al matrimonio. Tuttavia, la veggente vedeva nei suoi vaticini un giovane uomo che, rifiutato da Rosina, tentava in ogni modo di avvicinarla, sempre più prepotentemente e al di là del consentito.

Di fatto, di lì a poco, qualcuno avvisò Rosina che proprio quell'uomo aveva progettato un piano minuzioso per rapirla e simulare una “fuitina” il giorno seguente. Data l'affidabilità della fonte e l'impossibilità di evitare il sequestro, la povera ragazza, aiutata dalla sua famiglia, dovette organizzare in poche ore la partenza per Parigi, il posto più lontano in cui avesse dei parenti. Una volta all'estero, Rosina imparò a parlare il francese e a fare la sarta, arricchendo il suo gusto personale, già raffinato e all'avanguardia, con le rifiniture e i preziosismi dell'apprezzatissima moda d'oltralpe. Rimase a Parigi per quattro lunghi anni, durante i quali il suo estimatore siciliano non mancò di far sapere a tutti che i suoi propositi non erano mutati e che si stava adoperando per rintracciare la sua amata. Rosina, intanto, comunicava mensilmente con i suoi, tramite i mezzi allora alla sua portata, cioè lunghe e rassicuranti lettere, nelle quali li metteva a parte della sua nuova vita. Ne riceveva notizie circa la loro salute e la loro serenità nel saperla tranquilla e al sicuro.

La notte in cui Rosina sognò la ‘za Menna che la esortava a tornare finalmente a casa perchè aveva due regali per lei, non poteva sapere che la vecchina era ormai defunta da quasi un anno, e si spiegò l'accaduto come una profonda e comprensibile nostalgia del suo paese. Ma quando, dopo una ventina di giorni, ricevette la consueta lettera della sorella, realizzò che proprio la mattina dello strano sogno il suo pericoloso ammiratore era morto affogato.

Rosina non tardò a fare ritorno alla sua adorata Torre Faro, dove mise a frutto il suo talento per la moda, che le avrebbe consentito di vivere dignitosamente negli anni a venire. Dopo qualche mese venne anche chiarito il motivo del suo coinvolgimento nelle premonizioni della ‘za Menna, visto che il nipote di lei, Lillo, giovane bello e molto ambito, finì con l’innamorarsi di Rosina. I due si sposarono. Rosina era una che aveva vissuto: dopo quattro anni all'estero, sapeva parlare fluentemente il francese, aveva esperienza di come si tratta con le persone, e, soprattutto, sapeva condurre una conversazione che non vertesse su questioni casalinghe o sugli ultimi pettegolezzi del paese. Per Lillo era moglie amante e amica, ragion per cui non usciva di casa se non per andare a lavorare in ferrovia.

Ma la loro vita insieme era appena iniziata, quando anche Messina cominciò ad essere coinvolta nella grande seconda guerra. Rosina era costantemente preoccupata, sebbene suo marito dovesse soltanto svolgere il suo mestiere alla stazione, senza andare alle armi. Da quando lui aveva iniziato il turno di notte, lei non aveva pace e cenava ogni sera come fosse l’ultima volta insieme.

La notte del 3 gennaio riuscì finalmente a cadere in un sonno agitato e interrotto, dal quale si risvegliò alle quattro e quaranta del mattino, tutta sudata. Ricordava di trovarsi a correre su delle rotaie infinite, quando un’aquila, al volo sulla sua testa, aveva lasciato cadere dagli artigli una scarpa, che era rotolata in terra davanti a lei. Rosina si voltò verso la tavola, ancora apparecchiata dalla sera precedente, e realizzò che era crollata sul letto ancora vestita, e prima di poter lavare i piatti e rassettare la cucina.

Si alzò e cominciò a mettere a posto, finchè dopo qualche ora bussarono alla porta della loro piccola e comoda casetta di campagna. Rosina andò ad aprire e rimase sulla soglia ad ascoltare quello che erano venuti a dirle, poi chiuse la porta e tornò a sedere sul letto.

Da quel momento seppe che il secondo regalo della ‘za Menna, dopo la notizia della morte dello spasimante rapitore, era ben più grande e oneroso del primo. La vecchietta le aveva lasciato in eredità il suo pesante ingrato potere premonitore.

Il suo bellissimo, buono, intelligente, adorabile marito aveva voluto compiere il suo dovere anche sotto la pioggia battente e, nella notte buia, fornito dei suoi attrezzi, era corso lì dove era richiesto il suo intervento, rimanendo incastrato con una scarpa sul binario, proprio mentre sopraggiungeva l’interregionale da Siracusa delle quattro e quaranta.

Rosina prese il piatto e la forchetta con cui aveva cenato il suo Lillo e, così com’erano, li ripose nel cassetto del suo comodino, dove rimasero per sessant’anni. Si chiese se, in qualche modo, avrebbe potuto evitare che il marito andasse incontro a quel destino, ma dovette ammettere che mai e poi mai la sua mente lucida e razionale le avrebbe permesso di dar seguito a un sogno. Allora non sapeva ancora di essere incinta, ma si ripromise di intervenire prontamente ogni qual volta le fosse giunta una di quelle visioni, augurandosi che le prossime arrivassero in tempo utile.

La piccola Antonia nacque identica a suo padre, ma con la forza e la vitalità della madre. Crebbe sempre avvolta dall’affetto della famiglia paterna ed ebbe in Rosina un perfetto modello di abnegazione e testardaggine, dedizione al lavoro e ai propri cari.

La sua piccola insignificante vita avrebbe potuto trovare la fine in una mattina d’estate, se sua madre non avesse vissuto quella terribile tragedia. Rosina, infatti, sognò un pianto di neonato di cui non riusciva ad individuare la provenienza, fino a quando non aveva scorto dell’acqua uscire sotto la porta del bagno, ed aperta questa, aveva visto una culla a galla nella stanza allagata. Al risveglio, non collegò il neonato del sogno alla piccola Antonia, che aveva già quasi un anno, ma si mise in testa di tenere d’occhio ogni più piccolo specchio d’acqua nei paraggi.

Ebbene, fu solo dopo pochi giorni che la bambina, incapace ancora di camminare, contro ogni possibile previsione, si svegliò nel suo lettino, scese senza fare il minimo rumore e si diresse gattonando verso la tinozza piena d’acqua che occupava perennemente un angolo del bagno, per far fronte alle piccole necessità della casa; si tirò su in piedi e vi si gettò di testa.

Probabilmente, anche senza il dono delle premonizioni, ma col semplice istinto di mamma, Rosina avrebbe allo stesso modo percepito quel lievissimo sciacquettio e, distolto lo sguardo dalla sua macchina da cucina Singer a pedale, sarebbe corsa in bagno a salvare mia madre dall’annegamento.

Mia nonna visse ancora molti anni ed ebbe altre premonizioni, per fortuna mai così drammatiche come le prime due. Mi parlò dell’importanza delle tradizioni e della magia della nostra terra, della sua capacità di attrarci quando ne siamo lontani e delle durissime prove a cui può metterci se coraggiosamente scegliamo di non lasciarla. Mi raccomandò di non smettere mai di sognare, perchè la nostra terra ci permette di farlo, ma di tenere sempre d’occhio i suoi confini; e m’insegnò a dare fondo a tutte le mie risorse, pur sapendo che avrei incontrato persone non disposte a fare altrettanto. Non volle mai più nessuno accanto a sè. Si mise a letto ogni sera, dando uno sguardo al piatto nel cassetto del comodino, ed un sorriso alla foto di mio nonno, e se ne andò alle quattro e quaranta del 3 gennaio, come l’interregionale da Siracusa, che, allora, era puntuale.

MARZIA BUCETI- Da consumata lettrice di Topolino, a 8 anni guardavo già il foglio bianco con l'ansia da prestazione e mi infilavo sotto un tavolo con la penna in mano, per poi sperimentare il diletto supremo della scrittura. Una volta scoperto che mi piaceva anche la matematica, ma io non piacevo a lei, decisi di dare una piega definita alla mia vita, dedicandomi al corso di laurea in Lettere Moderne, con la piena convinzione di non voler insegnare, ma senza il coraggio di concretizzare. Al mio perenne stato di insoddisfazione nulla parve più invitante di un nuovo corso, un anno dopo la laurea. Almeno, la specializzazione in Archeologia del Mediterraneo mi illuse per qualche anno di aver trovato il mio posto fra cocci polverosi e tabelle di catalogazione. Adesso che ben altro mi appaga, fra un pianto da consolare e una fiaba da raccontare, scopro che due cose non sono mai cambiate: il mio amore per la lettura e il mio desiderio di scrivere.

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