La sostituzione dei commissari in Parlamento: attentato alle libertà democratiche?

La sostituzione dei commissari in Parlamento: attentato alle libertà democratiche?

La sostituzione dei commissari in Parlamento: attentato alle libertà democratiche?

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martedì 17 Giugno 2014 - 06:06

La Carta costituzionale non offre gran supporto alle critiche contro la decisione di rimuovere dal loro ruolo alcuni membri della Commissione che si sta occupando della riforma del Senato. E anche dal punto di vista strettamente politico la scelta trova valide argomentazioni. La riflessione del prof. Luigi D'Andrea, ordinario di Diritto Costituzionale all'Università di Messina.

Aspre polemiche hanno sollevato le recenti decisioni dei gruppi parlamentari del Partito Democratico e dei Popolari Per L’Italia di sostituire nella Commissione Affari costituzionali, rispettivamente, i senatori Mineo e Chiti e il senatore Mauro: come è ormai costume nel dibattito politico del nostro Paese, non si sono in alcun modo sprecati i toni allarmistici, denunciandosi da più parti un insopportabile abuso di potere, l’arbitraria soppressione del dissenso politico all’interno delle Assemblee rappresentative , in violazione del divieto di mandato imperativo che garantisce ogni membro del Parlamento. E si può già in via del tutto preliminare osservare come non sia affatto segno di buona salute della nostra democrazia l’appiattimento di ogni critica politica sul livello (naturalmente, di massima patologia) dell’attentato alla Costituzione, del colpo di stato, dell’attacco alle libertà civili e politiche, laddove i rilievi critici ben potrebbero (anzi, dovrebbero) essere piuttosto articolati sul terreno della semplice opportunità politica o anche semplice incostituzionalità (la mera non conformità alla Carta fondamentale).

Se ci collochiamo sul terreno del diritto costituzionale, non sembra davvero ravvisabile in queste vicende alcuna anomalia: la stessa Costituzione (art. 72, III comma) prevede che le commissioni parlamentari debbano essere composte in modo da rispecchiare la proporzione esistente in Aula tra i gruppi parlamentari, che si presentano come la naturale proiezione dei partiti all’interno delle Assemblee rappresentative, ed il regolamento del Senato (analogamente a quello della Camera) prevede appunto che i gruppi parlamentari designino, dandone comunicazione al Presidente del Senato, i propri rappresentanti nelle singole commissioni (art. 21, I comma), ben potendoli sostituire “per un determinato disegno di legge o per una singola seduta” (art. 31, II comma). Dunque, nessun attentato alla democrazia, nessun colpo di Stato, nessuna illegittima soppressione della libertà politica dei parlamentari, ma il fisiologico svolgimento della dialettica politica entro le diverse sedi delle Assemblee legislative, che vede come protagoniste le forze politiche in esse rappresentate, naturalmente ferma la libertà di critica e di dissenso garantita ad ogni membro delle Camere, il cui status non può in alcun modo essere menomato in forza di decisioni adottate da soggetti (politici e sociali) esterni al Parlamento (così si può in estrema sintesi risolversi il divieto di mandato imperativo assicurato dall’art. 67 Cost. ad ogni parlamentare).

Quanto al piano propriamente politico, molte sono le considerazioni che potrebbero sollevarsi con riferimento alle polemiche relative alla riforma del bicameralismo delineato dalla nostra Carta fondamentale ed alla conseguente sostituzione dei commissari “dissidenti” nella Commissione Affari costituzionali del Senato. Si potrebbe osservare che è opportuno, in materie così delicate, sottoporre ad una severa analisi critica e ad un fitto dibattito politico (e giuridico) ogni proposta di riforma del testo della Costituzione; ma si potrebbe anche rilevare l’alto livello di tossine introdotto nella vita politico-istituzionale del nostro Paese da un interminabile dibattito intorno all’assetto costituzionale dei poteri pubblici, sia per la strisciante delegittimazione della Carta fondamentale in vigore che progressivamente alimenta, sia per il deprimente spettacolo di sterilità e di inconcludenza offerto dalla classe politica.

Ma vi è un ulteriore profilo di interesse suscitato da tali vicende, che si colloca certamente sul versante politico, ma non privo di rilevanti conseguenze sul terreno del rendimento delle istituzioni pubbliche. Le forze politiche possono assolvere adeguatamente il loro insostituibile ruolo in un sistema liberal-democratico, grazie ad un’organizzazione robusta, articolata e pluralistica, ed anche a leadership forti ed autorevoli. Ebbene, al riguardo, soprattutto se si guarda all’ultimo ventennio di storia italiana, non è difficile ravvisare una duplice, per così dire opposta, “patologia”. Sul versante del centro-destra, e segnatamente nel maggiore partito dell’area (in tutte le sue diverse manifestazioni, da Forza Italia al Pdl, e quindi ancora Forza Italia), è più che evidente un ruolo del tutto preponderante della leadership berlusconiana, della quale la struttura organizzativa si presenta come docile strumento, del tutto disponibile nelle mani del Presidente: per comprendere fino a che punto si sia spinta l’“anomalia” costituita dalla assoluta centralità della leadership, nel servizio della quale si risolve interamente l’organizzazione partitica (che perciò ha costituito il “partito personale” per eccellenza), è sufficiente considerare che gli stessi più alti dirigenti di quel partito (si chiamasse Pdl o Forza Italia) hanno unanimi dichiarato, nel corso del ventennio segnato dalla presenza di Silvio Berlusconi nello scenario politico italiano, di non potere neppure immaginare (e a maggior ragione proporre pubblicamente …) per il loro partito una diversa leadership! Sul versante del centro-sinistra, si è assistito invece ad una netta prevalenza della variegata organizzazione partitica (specialmente se si fa riferimento al partito che oggi domina quella parte del panorama politico, cioè al Partito Democratico) sulla relativa leadership, che infatti, in primo luogo a causa delle divisioni intestine dei soggetti partitici, è passata di mano in mano (da Prodi a Renzi, passando per una molteplicità di figure!), mai consolidandosi fino al punto da essere in grado di almeno contenere gli effetti degenerativi di tale articolazione pluralistica. E, per inciso, può rilevarsi che anche rispetto alla proposta del movimento che si è clamorosamente assicurato un ampio consenso nelle ultime elezioni politiche (si tratta, naturalmente, del Movimento pentastellato di Grillo e Casaleggio), osservazioni (quantomeno) problematiche possono avanzarsi, risolvendosi il modello di democrazia diretta, centrato sulla rete telematica, da esso patrocinato nella soppressione della stessa distinzione tra società civile, sistema politico e istituzioni pubbliche e nel radicale superamento del sistema democratico rappresentativo e pluralista consegnatoci dai Padri costituenti.

Luigi D'Andrea

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