“I segreti di Osage County” di John Wells

“I segreti di Osage County” di John Wells

Tosi Siragusa

“I segreti di Osage County” di John Wells

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lunedì 28 Marzo 2016 - 17:29

Sulla rotta della decima musa: quando la famiglia genera sofferenza su sofferenza. Impressioni a cura di Tosi Siragusa

Il lungometraggio è un dramma a fonti tinte diretto da John Wells, tratto dal best-seller di Tracy Letts, già vincitore del Pulitzer e sceneggiatore della pellicola, connotata da una sapiente recitazione, una discreta fotografia, con i passaggi principali sottolineati da una musica consona. Beverly, interpretato da Sam Shepard (del quale tutti parlano e che appare pochissimo) che – si viene a sapere – è divenuto un alcolizzato infelice ed è stato un poeta, è il patriarca di una disfunzionale famiglia, che raduna i componenti in un desolante Oklahoma, intorno al suo funerale, dopo il suo tragico ritrovamento, che ha fatto seguito alla sua fuga da casa, nel fango di un lago.

Il quadretto familiare non è dei più armonici, formato come è da Violet, la madre ammalata di cancro, insopportabilmente prepotente, drogata di tranquillanti di ogni tipologia – in uno vittima e carnefice – splendidamente resa da Meryl Streep e dalle tre figlie, ognuna diversamente caratterizzata: vi è Barbara, interpretata da Julia Roberts, che non si sottrae allo scontro con la madre, restituendo pena e angoscia – è tra l’altro in profonda angoscia personale – i suoi rapporti con il marito, Ewan McGregor, sono in profonda crisi e la figlia, Abigail Breslin, è una teenager difficile; vi è poi Ivy, Juliette Lewis, svampita – e troppo superficiale per soffrire veramente – che si accompagna ad un improbabile nuovo compagno, e Karen, Julianne Nicholson, insicura – tendenzialmente vittima – schiacciata sotto il peso di quella realtà, infermiera “volontaria”, in quanto unica convivente con la madre, in cerca di riscatto, infine, solo parzialmente raggiunto, attraverso l’allontanamento per sottrarsi al proprio passato, difendendo il suo futuro. Vi è, ancora, Mattie, Margo Martindale, la grassa sorella di Violet, apparentemente molto dedita all’ammalata, in realtà rosa dai sensi di colpa, e poi il marito, un uomo sensibile, ma debole, ed il loro figlio, dapprima balbettante bamboccione, al centro di pesanti segreti, che trova, infine, la forza di reagire. Questa famiglia non è certo luogo d’amore e tutto crolla quando il passato, con la sua verità, a lungo negata e rivelata brutalmente, ritorna, presentando il conto, ed il mix diviene inesorabilmente esplosivo: i segreti troppo a lungo coperti riemergono, travolgendo un amore nascente fra due individui puri che avrebbero voluto ritrovare insieme la loro strada. Il banchetto funebre è memorabile rappresentazione – ad opera di un grande cast, di un vuoto pari almeno a quello del paesaggio circostante, ove il genocidio degli indiani d’America trova la sua nemesi in quel genocidio familiare americano – di consanguinei ed affini riuniti, ma distanti anni luce l’un l’altro, o comunque tenuti insieme da un rapporto insano, in una commistione odio-amore, in cui quest’ultimo sentimento non riesce ad emergere, in un gioco al massacro che si svolge attorno alla tavola di una Violet al culmine della sua invasività, che riversa con vorace furia sulle figlie, volendo in realtà aggredire se stessa per la propria miseria morale. Si intuisce, infatti, che da quella condizione di bassezza morale non si è ancora affrancata, mentre lei ed il defunto marito hanno affrontato e superato il passato di povertà materiale. Si infierisce, a quella tavola, traendo piacere misto a dolore.

Trattasi di un prodotto cinematografico fortemente connotato dalla bravura degli attori: infatti, pur essendo costruito intorno ai personaggi principali di Violet e Barbara ed alle loro liti, con due meravigliose Streep e Roberts (meritatamente candidate agli Oscar 2014, l’una come migliore attrice protagonista e l’altra quale migliore attrice non protagonista), il film è in realtà corale e tutti gli interpreti, e soprattutto Ewan McGregor e Juliette Lewis, sono magnifici. Ove si voglia trovare una pecca è forse nei toni troppo caricati, a volte teatrali e nella concentrazione in due ore di ogni tipo di sofferenza che un gruppo familiare può generare: il tradimento (con conseguente senso di colpa), la malattia, lo sbandamento adolescenziale, l’incesto… forse davvero troppo materiale. Siamo comunque nell’ambito della tradizione del glorioso dramma americano ed ancora una volta la resa è molto buona. La scena finale con Violet rimasta sola fra le braccia della badante nativa d’America, che prima detestava (quando tutti gli altri ne apprezzavano quanto meno la cucina) vuole essere simbolica della caduta del sogno americano e rende l’idea della tremenda solitudine di ciascuno dei componenti il nucleo familiare Weston: ognuno va via da solo, lasciando Violet malata e sempre più sconvolta… la crisi sembra trovare questa apparente soluzione. A tratti l’opera richiama alla mente l’imperscrutabile “tuke” delle tragedie greche, quel fato che punisce per colpe che trovano le loro radici nelle voragini del tempo passato – ma in questo caso non c’è “deus ex machina” che tenga e che hanno indotto Beverly a congedarsi da quella esistenza, che gli è apparsa inesorabilmente lunga e che più non ha sopportato.

Tosi Siragusa

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