La Messina che si sporca le mani col sudore e quella che se le mette in tasca

Mi ero ripromessa di dedicare la rubrica di oggi ai coraggiosi eroi del Birrificio Messina, che, messi in strada da un’imprenditoria incapace di volare, hanno investito cuore e Tfr in un sogno che tra pochi mesi diventerà realtà. Mi ero ripromessa di raccontare la storia della Messina che produce e fatica, che rischia di suo, braccia e sudore, che non si lamenta, che lotta per ottenere un diritto, che lavora per realizzare un obiettivo. Poi, mercoledì 19, con la richiesta di autorizzazione a procedere per il deputato Pd Francantonio Genovese, si è tornato a parlare dello scandalo Formazione. E scorrendo le pagine dell’ordinanza ho trovato un’altra Messina, che vede nel pubblico casse da saccheggiare, che non crede nel lavoro, che non vede altro futuro se non il proprio. E le due Messine sono come una fotografia ed il suo negativo. Chiedo scusa ai coraggiosi del Birrificio Messina se rubo loro spazio per parlare di un altro furto, quello del concetto di lavoro inteso come produzione, il furto del futuro per lasciare solo un deserto. I 16 ex dipendenti della Birra Triscele, dopo aver lottato per salvare lo storico stabilimento, hanno investito IL LORO TFR, non quello di altri, non soldi dell’Unione Europea, dell’Ars, dello Stato, ma il loro TFR (quello che gli italiani accantonano per una serena vecchiaia) , per realizzare il sogno di continuare a fare la Birra Messina. Hanno investito i loro soldi perché credono nelle loro braccia e nel loro progetto. Alla Regione hanno chiesto i capannoni non per far finta, come si usa al Sud, di avviare fabbriche e fantomatiche iniziative imprenditoriali, ma per vedere nuovamente “una cosa” prodotta, una cosa vera, che si tocca, che si crea. In una città dove i luoghi di produzione reale chiudono per far spazio alle palazzine, ci sono 16 pazzi scriteriati che si rimboccano le maniche per produrre. A settembre contano di mettere in bottiglia 20 mila ettolitri di birra. “Quello che stava morendo non era solo il nostro sogno ma un pezzo di storia di Messina”. Questa frase l’ho letta lunedì 17 nell’articolo di Francesca Stornante che ripercorreva il calvario dei lavoratori. Tre giorni dopo ho letto, tra le carte dell’inchiesta Corsi d’oro, frasi ben diverse. Gli Enti di formazione sono nati ( o almeno così riteniamo noi babbei) per dare ai nostri giovani la possibilità di qualificarsi per trovare un lavoro. Ma quel mostruoso sistema che è stato creato in tutta la Sicilia, se ne frega totalmente dei giovani e del futuro dell’isola. Il concetto di lavoro è diventato una parola ridicola di fronte a quel che è stato fatto. Gli Enti sono serviti a drenare fiumi di denaro che finivano in un mare di clientela che andava dal Cda, al docente, all’impiegato fino al fornitore. Nelle carte dell’inchiesta ho letto di Enti che venivano fatti agonizzare appositamente per poterli acquistare a poche lire e quindi continuare a fare affari. Meccanismo semplice, gli si bloccavano i fondi alla Regione per prenderli con l’acqua alla gola per poche lire e tornare a ottenere milioni di euro dall’Ue. Ho letto di compravendita di corsisti. Mi servono due apprendisti fabbri, se me li dai in cambio ti dò una quota di finanziamento. E si contrattava la percentuale, come al mercato. I corsisti non sono merce, non sono numeri, sono i nostri ragazzi. In tanti casi i corsisti non venivano neanche pagati perché si lucrava persino sulle loro indennità. Ho letto di persone assunte formalmente negli Enti ma che in realtà lavoravano per la segreteria di Genovese. E, lamentandosi del livello a loro assegnato e dello stipendio, minacciavano di andare sul serio a lavorare allo sportello. Lavorare realmente nell’Ente era insomma una minaccia…. E’ un po’ come se io mi facessi rifare il salotto dall’architetto del Dipartimento urbanistica facendolo pagare dal Comune, o come se mi facessi pulire la casa dai dipendenti di Messinambiente.

Di fronte a tutto questo lo stupore degli ispettori europei dell’Olaf quando hanno scoperto che al Ciapi l’Unione Europea aveva mandato 15 milioni di euro per avviare al lavoro 18 ragazzi (quasi un milione di euro a ragazzo) dei quali si conosceva solo il nome, è nulla. Siamo di fronte ad una concezione della cassa pubblica come portafoglio privato. L’ufficio di collocamento è stato sostituito con una segreteria politica che smistava le assunzioni, tenendo conto, persino degli invalidi civili e delle categorie svantaggiate. Il tutto ovviamente senza graduatorie, concorsi, bandi. Ma la differenza tra il collocamento pubblico e la segreteria politica non è una quisquilia, perché il conto lo paghi alla cassa e la cassiera non è una signorina sorridente, ma l’urna elettorale. In Sicilia si utilizzava il denaro pubblico come se fosse il proprio conto in banca, peraltro con rischio d’impresa pari a zero perché i soldi non erano i loro. Il problema è anche l’assoluta mancanza di produttività di tutto questo. Riempire gli Enti di finti docenti finti impiegati finti corsisti finti fornitori finte sedi crea un’illusione di “lavoro” che quando il sipario cala lascia il deserto.

Questa inchiesta ti lascia un profondo senso di tristezza. Se ami la tua città, la tua gente, devi piantare un seme e poi vederlo crescere. Lo innaffi, lo curi. Se invece passi con una ruspa senza lasciare neanche un filo d’erba non resterà più niente. Da questa formazione non nascono fiori né frutti, se non per chi ha trasformato gli enti nel bancomat personale. C’è un episodio nelle intercettazioni in cui uno degli arrestati racconta come è avvenuta l’assunzione di decine di persone per l’Enfap: “ Allora prima fanno la riunione da soli e noi eravamo tutti lì come scolaretti e poi ci chiamano uno per uno, come scolaretti”. Nel leggerla avverti quel senso di umiliazione che proviene da un diritto trasformato in elemosina. Non è questo che chiediamo alla politica.

Poi il pensiero torna a lunedì 17 marzo. I 16 della Birra Messina non hanno chiesto uno stipendio, assistenzialismo. Hanno chiesto le opportunità per poter poi crearsi il proprio stipendio. Non si sono inventati un corso di formazione per “il bravo birraio”, docenze sull’uso del malto a fini terapeutici o sulla matematica applicata alla birra scura. I 16 del Birrificio Messina non hanno studiato come ingannare l’Unione europea, hanno pensato, guarda un po’, anche ai loro figli, che magari un giorno potranno investire, ampliare la produzione, far girare la birra nel mondo. O semplicemente essere orgogliosi dei loro papà che a 50 anni si sono rimessi in gioco. La loro storia commuove perché è una piccola perla rara in un mare scuro in cui il lavoro ha perso ogni valore, ha perso ogni dignità. E poi, diciamolo, la birra mette allegria e dopo un po’ ti torna il sorriso e la voglia di sognare.

Rosaria Brancato