La battaglia di Hacksaw Ridge. Il potere e la gloria

“Una mattanza”. Così in un’intervista Franco Zeffirelli ha definito il film Passion di Mel Gibson. E una mattanza sembra allo spettatore anche quasi tutto il secondo tempo di La battaglia di Hacksaw Ridge, ultimo film del poliedrico attore e regista australiano. Questi era noto molti anni or sono quale interprete di action movies nonché come una delle migliori maschere comiche del cinema americano (chi non lo ricorda nel ruolo del poliziotto dalla faccia di impunito?). Da alcuni lustri, Gibson realizza per lo più film di ispirazione religiosa o, comunque, animati da un evidente intento didascalico. Il suo ultimo film ha ottenuto ben sei nomination all’Oscar e un buon successo all’ultimo Festival del Cinema di Venezia (dove è stato presentato fuori concorso), ma appare improbabile che passi alla storia del cinema alla stessa stregua di Salvate il soldato Ryan. La pellicola, girata per lo più in Australia, è ispirata alla storia del primo obiettore di coscienza statunitense, Desmond Doss che pure partecipò, senza imbracciare mai il fucile, alla Seconda Guerra Mondiale. Nel ruolo del protagonista vi è un attore emergente, il trentatreenne Andrew Garfield, che recentemente ha interpretato un missionario gesuita in Silence di Martin Scorsese. Garfield, di religione ebraica e cresciuto in una famiglia che coltiva ancora le tradizioni yiddish, sembra particolarmente a suo agio nei panni di questo personaggio dalla fede granitica e di impronta fondamentalista (detto per inciso, anche Mel Gibson manifesta una fede connotata da un certo fondamentalismo).

Il primo tempo del film racconta l’infanzia e l’adolescenza di Desmond Doss, un ragazzone della provincia americana che aderisce alla Chiesa Avventista del Settimo Giorno. Questa parte della pellicola indulge all’idilliaco e al sentimentalismo, soprattutto nel rievocare la storia d’amore con l’infermiera che sposerà Desmond. Tuttavia non vi mancano le scene drammatiche. Il padre – ben interpretato da Hugo Weaving, ovvero l’agente Smith di Matrix – è un veterano della Prima Guerra Mondiale, ossessionato dai ricordi traumatici del conflitto. L’uomo picchia la moglie e, per difenderla, in un’occasione Desmond giunge a puntare la pistola contro di lui. La madre trasmette al protagonista la convinzione che l’omicidio sia il più grave dei peccati, e il giovane la interiorizza in modo indelebile soprattutto dopo avere ferito gravemente il fratello in una scazzottata. In seguito all’attacco giapponese di Pearl Harbour, molti giovani statunitensi si arruolano. Nel 1942 anche Desmond parte per il fronte, poiché è certo di poter servire il suo paese pur non toccando alcun fucile. È appena il caso di dire che, già nel periodo di addestramento, il giovane obiettore di coscienza è vittima del disprezzo dei superiori e dei commilitoni, che lo sottopongono alle vessazioni più umilianti, ritenendolo un vigliacco. L’addestramento è descritto da Gibson in conformità ai più triti luoghi comuni dei war movies americani. Anche qui troviamo il classico sergente dalla voce stentorea che sfrutta il suo potere per insultare da mane a sera i suoi subordinati. Vi è però una divergenza rispetto ai cliché dei film congeneri: qui il sergente istruttore non è un coloured, ma un bianco interpretato da Vince Vaughn, noto al pubblico americano soprattutto quale attore brillante e comico. Allo spettatore italiano, invece, Vaughn può sembrare una brutta copia di Gabriel Garko, imbolsito oppure sotto cortisone.

Per la sua determinazione a non imbracciare il fucile disobbedendo agli ordini superiori, Desmond Doss rischia di essere deferito alla corte marziale. Tuttavia, viene accettato nei servizi sanitari dell’esercito grazie a una lettera inviata ai superiori da un generale, il quale pone in rilievo che un emendamento della Costituzione salvaguarda i diritti degli obiettori di coscienza. Stupisce che tale emendamento fosse sconosciuto ad alti ufficiali dell’esercito. O, forse, pur essendo noto era rimasto lettera morta sino a quel momento.

Come si è detto, nel secondo tempo del film assistiamo a una mattanza. Mel Gibson ammannisce, in tutte le possibili versioni, scene di efferata violenza, dispiegando nei dettagli più orrendi e ripugnanti un’attitudine analitica oltremodo marcata, nella quale qualche critico ha fondatamente ravvisato una propensione al “barocco”. Lo spettatore è indotto a chiedersi se per condannare la violenza – come il regista si propone – fosse proprio necessario proporre tale profluvio di scene violente. Certo, la guerra è stigmatizzata da Gibson, ma quello stesso spettatore non sfugge all’impressione che il regista intenda comunque mostrare che nelle guerre i soldati americani sono un po' meno “cattivi” degli altri. Tra le loro fila hanno persino un santo. Nella battaglia, il successo arride proprio a loro, e il film indugia nel presentare un alto personaggio giapponese (un generale?) che fa karakiri.

Nell’inferno di Hacksaw Ridge si rivela la tempra eroica di Desmond Doss, che riesce a portare in salvo oltre settanta commilitoni feriti. Per questa impresa sarà insignito della Medal of Honor, la più alta onorificenza militare statunitense. Per salvare i compagni, il giovane ricorre agli espedienti più ingegnosi, sfidando le leggi della fisica. Il Cielo è dalla sua parte. Solo per un istante la sua fede sembra vacillare. Chiede incessantemente al Signore di fargli trovare altri compagni da salvare e viene esaudito. Alla fine del film, in un’intervista rilasciata poco prima di morire, il vero Desmond Doss ricorda di avere formulato proprio quella preghiera. In fondo, allo spettatore sembra che Doss – pur con motivazioni diverse, in modo più eclatante e “più in grande” – compia un’impresa analoga a quella realizzata da Forrest Gump nel film omonimo. Nella Guerra del Vietnam, Forrest si inoltra nella boscaglia, sfidando le granate nemiche, per cercare i compagni feriti e condurli in salvo. Il personaggio interpretato da Tom Hanks, comunque, è ancora più semplice, più “innocente” di Desmond Doss: non ha bisogno di pregare e rischia la vita semplicemente per “salvare i suoi amici”. Terminata la battaglia, Desmond viene osannato come un eroe dai superiori e dai compagni, anche da coloro che lo avevano denigrato durante l’addestramento. Un ufficiale gli chiede perdono per averlo considerato un codardo. Non sorprende dunque che nelle ultime scene si riscontri anche qualche spunto agiografico.

Nel complesso, l’ultima opera di Mel Gibson ripresenta alcuni tratti ormai consolidati della sua filmografia. Si può aggiungere che il regista avrebbe conseguito il suo intento didascalico in modo più convincente, realizzando peraltro un’opera più pregevole, se avesse concesso meno spazio alle scene di violenza e avesse approfondito il profilo psicologico dei personaggi più importanti del film.

Nunzio Bombaci