Nella Messina ridotta a terra di passaggio io sto col popolo di #quellicherestano

Quest’estate ho capito quanto la mia terra sia “porto”, nel senso di luogo dove si va e si viene e si va di nuovo via. Conosco tutte le ondate migratorie nostrane estive, legate ai flussi di esami universitari, test di accesso, ferie. Non c’è casa che non si sia preparata ad accogliere un ritorno e ad affrontare un “arrivederci a Natale”. Non c’è famiglia che non abbia uno, due, tre, quattro componenti sparsi per il mondo e non per piacere ma perché siamo terra arida. Se li mettessimo tutti in fila, giovani, meno giovani, emigrati della prima, seconda, terza e futura generazione, formerebbero un’interminabile colonna, potrebbero creare una Messina 2, mentre la 1 si appresta a diventare una città di vecchi. Non una “città per vecchi”, parafrasando il film dei fratelli Coen, perché il “per” presuppone una predisposizione, ovvero una città fatta su misura per i vecchi, con strutture e servizi, ma una città di vecchi, nel senso numerico, piena di vecchi, senza bambini, senza adolescenti. Ci sono i figli che vanno via per studiare ( un tempo era un lusso per le famiglie ricche, oggi la strada del treno è un obbligo che costa sacrifici immensi), quelli che sono andati via per studiare e poi sono rimasti altrove. Ci sono quelli che dopo la laurea hanno provato a tornare ma sono ripartiti, quelli che hanno studiato qui ma sono andati via per lavoro o che dopo anni di disoccupazione o precarietà hanno preso coraggio e cuore e sono andati via. Quelli che hanno perso il lavoro a 50 anni e ci stanno provando altrove, quelli che sono via da decenni e tornano puntualmente ad ogni estate, con nuove famiglie che hanno altri accenti ed altri colori meno mediterranei. Infine ci sono quelli che stanno per andar via. Conosco genitori di 70 anni che hanno imparato a usare Skype pur di essere vicini a quel pezzo di cuore che è andato via. Chi va via non sempre è un genio della Nasa, vanno via muratori, pizzaioli, commesse, non solo professori, artisti e scienziati. Con il trascorrere degli anni si affievolisce la voglia di tornare. La nostalgia in fondo si può combattere anche con una foto, con una frase su facebook. Conosco anche genitori che si sono trasferiti insieme ai figli. Ci lamentiamo dei migranti che sbarcano a Messina, ma non ci accorgiamo che le nostre strade sono sempre più deserte e che non c’è nessuna invasione. Siamo terra di passaggio, siamo un pianerottolo. Pensando a tutto questo mi son detta che tornando indietro non rifarei gli stessi errori, primo fra tutti quello di restare qui. Poi una mia amica, l’avvocato Aura Notarianni, che ha due figli in giro per il mondo, mi ha detto: “no, io ripeterei tutto esattamente come prima. Solo inizierei prima ad indignarmi a smettere di sperare e iniziare a combattere”. Ha ragione lei, avremmo dovuto iniziare prima a di-sperare, nel senso di smetterla di crogiolarci sulle illusioni ed iniziare subito a combattere ad indignarci, a fare qualcosa, qualsiasi cosa. Mentre riflettevo alle sue parole mi son detta che se fossi andata via, se avessi scelto un’altra vita, insegnare e passare i miei anni a Udine piuttosto che a Como, mi sarei persa un sacco di cose. Soprattutto non avrei incontrato un popolo straordinario e in estinzione: #quellicherestano. In questi 20 anni trascorsi in una città che stanno ammazzando se io fossi stata altrove mi sarei persa un mucchio d battaglie perse, ma combattute. Mi sarei persa le donne della Pirelli che facevano, prime in Italia, i turni di notte e le battaglie ai traghetti per evitare una chiusura che ci fu, perché quella era stata una falsa industrializzazione. Mi sarei persa le lotte per non chiudere una per una tutte le nostre ricchezze, dalla Sanderson alla Rodriquez (che facciamo ancora finta sia qui), alla Birra Messina, Molini Gazzi, Margherita, Marinarsen, cantieristica. Mi sarei persa le battaglie contro il Ponte e per lo Stretto. Non avrei mai conosciuto migliaia e migliaia di lavoratori nei mille cortei per l’occupazione. Non sarei stata al fianco dei lavoratori Telecom in cima al Campanile prima e poi ex Servirail e non mi sarei commossa alla mensa di Sant’Antonio quando sono stati assunti dalle Ferrovie. Non avrei conosciuto i volontari della mensa di Sant’Antonio, dell’Help center, degli sbarchi, delle tante associazioni senza un euro ma con tanto di quell’amore da essere più ricchi di una banca svizzera. Non avrei mai conosciuto i coraggiosi della Birra Messina che hanno scommesso tutto sul loro sudore e sul loro tfr senza elemosinare niente. Non avrei conosciuto quegli straordinari ragazzi ed ex ragazzi che hanno deciso di restare, ingegneri, architetti, elettricisti, camerieri, pittori, informatici. Non avrei conosciuto Giuseppe Gazzara e i suoi geniacci del web che hanno inventato un app, la geolocalizzazione delle emozioni che solo a pensarci devi dirgli grazie. Non avrei conosciuto artisti come Giuseppe Ministeri e Angelo Campolo che hanno scelto la cosa più folle, restare qui dove i teatri restano chiusi per 20 anni. Non avrei visto i ragazzi del Pinelli occupare quei luoghi che la politica ha desertificato. Non avrei visto neanche quella miriade di politici ai primi gradini che si sono spesi e si spendono non per farti trovare un certificato ma per rendere più bella la città, anche solo pulendo una villetta. Non è vero che sono tutti uguali. Basta con questa bugia, i politici non sono tutti uguali. Certo, sono pochi quelli per i quali vale la pena andare votare, ma è un delitto lasciarli soli o peggio metterli nello stesso cesto con gli altri, con quella maggioranza che ha ammazzato la città. Non avrei conosciuto quei pazzi della Discovery Travel che fanno accoglienza in una città che non conosce questa parola e che insieme a tutte le altre coop e associazioni cercano di abbattere quel muro di Berlino che c’è al molo di attracco delle navi da crociera. Non avrei conosciuto quei pazzi come Nino Principato, e quelli della Fondazione Antonello che hanno la bislacca idea che turismo voglia dire cultura e che la nostra sia terra di storia, arte, tradizioni, i ragazzi delle associazioni e dei movimenti, Fare verde, vento dello stretto, libera, addio pizzo, passare casa per casa per svegliare le coscienze. Non avrei visto Accorinti e Cambiamo Messina dal basso emozionare la città e rendere possibile un sogno impossibile, la vittoria sul vecchio. Non avrei visto Messina essere sempre ai primi posti di Telethon e nelle gare di solidarietà, non avrei vissuto i giorni di Giampilieri. Non avrei visto le battaglie anti tir per 20 anni e non avrei trascorso 20 anni a guardare incompiute.

Nell’Alchimista di Coelho c’è il pastorello Santiago che va in giro per il mondo alla ricerca del tesoro che ha sognato. Alla fine scopre che è sotto il sicomoro di casa sua. Siamo tutti seduti sopra un sicomoro. Mi correggo. La classe dirigente ha scoperto subito che il tesoro era sotto il suo lato B e ci si è tuffata. Adesso non è rimasto granchè: quel tesoro è il popolo di quellicherestano, il coraggio di chi ancora apre la saracinesca ogni mattina,di chi rifiuta la mazzetta e la raccomandazione, di chi quando arrivano i turisti s’inventa di tutto pur di accoglierli nonostante la burocrazia del Palazzo uccida ogni tentativo di sviluppo. Non siamo proprio ricchi, perché dal nostro sicomoro sono passati Alì e i 40 ladroni per 40 anni di fila, ma ha ragione Aura. Dobbiamo di-sperare, nel senso di non lasciare tutto il compito alla speranza ma agire.

Sotto il sicomoro di Messina c’è il tesoro di quellicherestano, ed allora, cerchiamo di non farci rubare pure questo.

Rosaria Brancato