No al razzismo “double face”. Ricordiamoci chi siamo e la storia dei nostri avi

Un pezzo d’Africa è sbarcato a Messina. Con l’arrivo in notturna di 360 migranti, provenienti per lo più dall’Africa sub-shahriana ( Mali, Senegal, Gambia e Nigeria.) ma anche dal Corno d’Africa, Eritrea e Somalia, il numero degli immigrati “accolti ” in città è salito a circa 600. Si tratta in fondo di una piccola comunità multietnica, composta da uomini, donne e purtroppo anche bambini che, dopo aver attraversato il Mediterraneo – in condizioni disumane – e sfidato il destino, hanno toccato terra. Quella che per molti di loro è comunque la terra “promessa”, in cui – lontani dalle guerre e dalle faide che insanguinano i loro paesi – possono sentirsi al sicuro. Anche quando l’unica sicurezza è di non essere morti in mare, come tanti loro fratelli.

I migranti sono attualmente ospitati nella palestra e nella tendopoli al Palanebiolo. Dovrebbe trattarsi di una sistemazione provvisoria, ma intanto sono lì dove la parola accoglienza perde il suo significato più nobile ed il concetto di civiltà viene svilito a tal punto da far dimenticare di vivere nel XXI secolo. Eppure sono molti i messinesi che, invece, di indignarsi per il modo in cui trattiamo i nostri fratelli, puntano il dito contro gli immigrati, visti come veri e propri rivali, che arrivano qui «per toglierci da mangiare, il lavoro, e per campare sulle nostre spalle, con i nostri sacrifici».

Razzismo, odio, insensibilità, finto patriottismo si mescolano in un mix micidiale che fa venire fuori il peggio della razza umana, capace dei pensieri più meschini ogniqualvolta fa prevalere l’istinto animalesco e primordiale sulla ragione. «Homo homini lupus» scriveva Hobbes nel XVII secolo descrivendo la condizione inevitabile dello “stato di natura”, cioè di uno stato senza leggi in cui ciascun individuo è dominato esclusivamente dal proprio istinto e considera l’ altro un ostacolo al soddisfacimento dei propri desideri.

Ma scagliarci gli uni contro gli altri non ci aiuterà a stare meglio; prendere di mira gli immigrati non ci restituirà una società più equa e più giusta; chiudere le porte del nostro Paese a giovani uomini e giovani donne in cerca di un futuro che non puzzi di morte non farà dell’Italia un paese più sicuro e più vivibile.

E’ evidente che per nessuno è piacevole trovarsi davanti due, tre ragazzi di colore ad ogni semaforo della città con un bicchiere in mano a chiedere un’offerta, ma sarebbe bello se prima di giudicare l’atto in sé – obiettivamente fastidioso – provassimo almeno a capire anche una sola delle motivazioni che può indurre un ventenne, un trentenne ad umiliarsi, a calpestare la propria dignità per elemosinare qualche spicciolo.

E se quei ragazzi fossero i nostri figli, i nostri nipoti, i nostri amici, se fossimo noi? Cosa sappiamo di loro? Nulla, a parte l’etichetta di “immigrati” che gli affibbiamo addosso, spesso con accezione negativa.

E’ il razzismo “double face” che dobbiamo provare ad allontanare dalle nostre menti e dal nostro cuore: non si può essere contro il razzismo solo quando lo subiamo, dai nostri fratelli italiani ad esempio, quelli che ci guardano dall’alto in basso, e non solo in senso geografico; quelli che ci rinfacciano di mantenere anche noi con il loro lavoro; che ci considerano figli dell’assistenzialismo e scansafatiche cronici. Su Facebook gira, da qualche giorno, l’annuncio pubblicato dal proprietario di un bar di Firenze che cerca un lavorante, purché non sia meridionale, viene espressamente specificato. Ovviamente, sul social network, gli improperi verso l’ “improvvido” esercente toscano si sprecano. Il razzismo, invece diventa lecito se da soggetti passivi diventiamo soggetti attivi e siamo noi ad esercitare forme di discriminazione, di pregiudizio e di isolamento culturale. Che a noi siciliani, però, non appartengono. Per storia, per dna e perché anche noi siamo stati, e continuiamo ad essere, immigrati in terre straniere. Negli ultimi anni, il fenomeno dell’emigrazione dal sud Italia è profondamente cambiato, all’estero ci andiamo in aereo ed esportiamo soprattutto le nostre conoscenze. Ma non dimentichiamoci di quando, nel XIX secolo, partivamo in terza classe con le valige di cartone per sfuggire alla fame ed alla povertà più nere. Pensando ai nostri avi, forse sarà più facile guardare con altri occhi i nostri sfortunati fratelli africani.

Danila La Torre