Cultura

Concorso Cavaleri, 1° posto liceo Francesca Fava: “Caro nonno, la storia si ripete”

Continua la pubblicazione dei temi vincitori del concorso Silvana Romeo Cavaleri. Dopo aver pubblicato i vincitori del Ginnasio, oggi è la volta del 1° posto per il Liceo.

I POSTO – FRANCESCA FAVA (III C LICEO LA FARINA)

Caro nonno,

ti scrivo questa lettera anche se so che non la leggerai, ti scrivo perché non avrei mai immaginato che un grido di dolore potesse riecheggiare sino ai giorni nostri, sino ad oggi. Ma ancor meno potevo credere che saremmo stati noi italiani gli spettatori di tale grido. Nel suo più celebre quadro, Munch raffigura un volto anonimo in uno stato di disperazione, mentre urla. La sua voce assume numerosi colori, si espande come se provocasse un’eco; eco che sento risuonare ancora, in lamenti e gemiti asfissianti, in pianti inconcludenti ed inascoltati. Tu forse, nonno, hai sentito più fortemente quel grido, lo hai vissuto in modo più diretto, hai visto con i tuoi occhi l’essere umano trasformarsi in un animale, in un carnivoro, in qualcosa che, semplicemente, sopravvive. Tu, nonno, sei stato testimonianza delle atrocità di cui l’uomo è colpevole, tu lo hai scritto nelle tue lettere, tu sei un pezzo di storia. Ti deluderebbe oggi leggere questa lettera, sapere che l’uomo non è cambiato, che la natura non è ancora sazia di vite, che la dignità di una persona non è ancora considerata un motivo valido per cambiare il proprio modo di agire, il proprio progetto politico. Voi combattenti di guerra avere vissuto la morte e avete sognato la vita, l’avete cercata poi in terra straniera, fuggendo dalla miseria, dalla guerra. Voi soldati obbligati a vivere in trincea sapete cosa significa perdersi. Ma voi che dalla guerra siete sopravvissuti, voi che volevate evitare i conflitti eppure siete stati costretti a far parte di una macchina bellica distruttrice, sapete anche cosa significa cercare altrove, e non nella deludente terra natia, la propria felicità. È in questo momento che la vostra voce deve risuonare, che la storia deve far riecheggiare i diritti umani con voce ancor più alta di quella che urla al modo la propria morte.

È oggi che la storia deve essere, più che mai, “magistra vitae”. Proprio oggi perché, mentre io ti scrivo, migliaia di vite sono disperse in mare. Nonno, le barricate di uomini uccisi e straziati sul terreno che tu vedevi sulla terra, io le osservo oggi in mare, su barche ricolme di uomini spenti, di vite spoglie. Lì la storia sembra ripetersi, non progredire. Mi sembra quasi di vedere in quei volti straziati gli sguardi dei naufraghi de “La zattera della Medusa”. Vita e natura in quel quadro universale lottano, si contrastano in un oceano sconfinato e tempestoso. Ma tra i naufraghi a cui mi riferisco io, tra i naufraghi di oggi ci sono uomini forti, uomini coraggiosi che non temono più la forza della natura, bensì gli uomini che troveranno in terra. I naufraghi di oggi scappano dalla guerra che c’è nel loro paese, ma non sanno, o forse semplicemente non vogliono sapere, che nel suolo italiano le avversità non saranno minori.

Nonno, non pensavo che avrei mai assistito nell’epoca contemporanea ad un fenomeno così primitivo: loro, le vittime, sono ritenute paradossalmente i carnefici, ieri i naufraghi venivano ritenuti pericolosi per la “sicurezza” del nostro Paese, oggi sono assimilati a dei “pirati”, in un processo che sembra non concludersi più. La verità viene ribaltata per l’incapacità organizzativa di noi italiani. Eppure la nostra è una delle Costituzioni più belle che ci siano, è una delle più tolleranti, che riconosce la dignità umana.

La forma e la materia, tuttavia, non combaciano; la teoria e la prassi non riescono a conciliarsi e il risultato che se ne ottiene è la testimonianza del nostro fallimento in quanto esseri umani.

Chissà cosa direbbero oggi i greci dinanzi a queste atrocità, a questa disumanizzazione del nostro essere. Socrate disse: “sono un cittadino non di Atene o della Grecia, ma del mondo”, affermando così il proprio cosmopolitismo. Di fronte ad una vita in pericolo non è la “grecità” o l’ ”italianità” che deve affermarsi, bensì la nostra umanità, il nostro “io” come essere fra gli esseri, come uomo fra gli uomini. Terenzio una volta affermò: “Homo sum: humani nihil a me alienum puto”, ovvero “sono umano, e nulla di ciò che è umano mi è estraneo”. Con tali parole il commediografo latino voleva esprimere la propria solidarietà, la propria umiltà, la propria disponibilità di fronte alle sventure altrui.

Terenzio ci insegna che siamo “umani”, ovvero sorretti tutti ugualmente dall’”humus”, dal suolo, dalla terra; compiamo tutti lo stesso percorso, lo stesso ciclo di vita e di morte e questo significa che siamo tutti su un’unica e medesima barca. Proviamo tutti, consciamente o inconsciamente una terribile paura. Gli italiani, ad esempio, temono il migrante proprio perché sanno che è più forte di loro, che egli è un sopravvissuto ad impensabili imprese. È conseguenza naturale della propria fragilità aver paura del più forte. Eppure bisognerebbe affrontare le proprie paure, non respingerle. Come disse anche Heidegger, l’uomo che conduce un’esistenza autentica è colui che affronta, e non che respinge, la paura della morte. Guardando al passato, alla storia, a te, nonno, e giungendo fino al presente, ho compreso che la storia si ripete, che l’uomo non smette mai di rivelare il suo lato più brutale e che, tuttavia, questa cattiveria ci sconvolge ancora, ci meraviglia ancora.

Nonno, io non so che emozioni susciterebbe in te il presente, in te che hai già visto il peggio a cui l’uomo può giungere, ma sono quasi certa che non saresti sconvolto dalla cruda realtà dei fatti, bensì deluso dalla “ricaduta” dell’uomo nel suo stato di indifferenza.

Forse questo è un ciclo che non si concluderà mai, forse è una verità con la quale dobbiamo imparare a convivere, forse Vico aveva ragione a parlare di corsi e ricorsi storici, ma io credo anche nell’eterno ritorno nietzschiano, ovvero nel fatto che anche quelle quotidiane azioni solidali umane, anche quegli sguardi di comprensione e quei pianti di immedesimazione nei confronti dei sofferenti, saranno, un giorno, destinati a ripetersi. Anche tu, nonno, continua a credere, con gaiezza della gioventù, nell’umanità.