Aveva ragione Mafalda: “Fermate il mondo, voglio scendere”

A volte leggere un giornale può essere più illuminante di un trattato di sociologia. Domenica scorsa, ad esempio, la pagina 25 della Gazzetta del sud: l’apertura è la storia di Giuseppe Burgarella, operaio 61enne di Trapani, disoccupato da 10 anni. Aveva scritto a Napolitano, alla Camusso, per rivendicare in base all’art. 1 della Costituzione il suo diritto al lavoro. Alla fine ha preso una corda, è salito su una sedia e si è impiccato. Ha lasciato un biglietto dentro una copia della Costituzione, “Lo Stato non mi toglie da questa condizione di disoccupazione perché non mi restituisce la mia dignità. Se non lo fa lo Stato dovrò farlo io. Se non lavoro non ho dignità”. Ha lasciato anche un elenco dei suicidi per disoccupazione negli ultimi due anni e l’ultimo nome che ha scritto in fondo alla lista era il suo, Giuseppe Burgarella. Appena sotto questo doloroso articolo, nella stessa pagina 25, ce n’era un altro. Trapani: assenteismo, arrestato dirigente regionale. A corredo dell’articolo sull’arresto di Mario Agliastro, 62 anni, dirigente dell’Ispettorato provinciale dell’agricoltura di Trapani c’erano due foto che lo immortalavano mentre timbrava il cartellino anche a favore dei colleghi, perché aveva in casa copie artefatte dei badge. Una banalissima e ormai quotidiana cronaca di truffa allo Stato che i dipendenti pubblici mettono in atto con la convinzione di farla franca. Non mi ha colpito questo, ma un altro dato: nella stessa città, nello stesso giorno, forse anche negli stessi minuti, mentre un uomo si toglieva la vita disperatamente dopo aver combattuto per il diritto al lavoro un altro uomo su quel diritto ci stava sputando sopra (e scrivo sputando per rispetto dei lettori, ma il verbo corretto è un altro). Mentre un uomo per 10 anni si è umiliato per lavorare altri uomini nella stessa città, soddisfatti del posto pubblico che nessuno ti tocca, andavano a far shopping o al doppio lavoro (rubando quindi ben due posti di lavoro con un solo gesto) e frodando la collettività. Magari questi due destini si saranno incrociati per strada, al bar, in autobus, lo sguardo disperato di chi non vede luce e quello sfottente di chi ruba la luce degli altri. So bene che l’assenteismo è un malcostume diffuso ma quell’accostamento tra le due notizie di cronaca nello stesso giorno e nella stessa città rende bene il periodo che stiamo vivendo. Avevano persino la stessa età. E’ uno spaccato di una società che ha perso la bussola. Domenica scorsa, guardando quella pagina di giornale ho pensato che avevano ragione i Maya, c’è stata davvero la fine del mondo, ma non a dicembre, c’è stata da tempo, la fine del mondo giusto. Noi non ce ne siamo accorti ma l’anima del mondo si sta spegnendo lentamente. La cronaca quotidiana è filosofia e ci aiuta a capire meglio di qualsiasi economista o sociologo in che baratro siamo precipitati. Ho provato ad immaginare cosa è passato nel cervello di Giuseppe Burgarella nelle ultime 24 ore della sua vita e cosa è passato nel cervello dell’altro, di Mario Agliastro, uno dei migliaia di furbetti del badge, nelle stesse ore. Burgarella avrà ripensato alla sua vita, ai sogni da ragazzo, che erano grandi e belli, alla sua donna, ai figli, e non ha più visto nessuna luce in fondo al tunnel, non si sarà più sentito un uomo. L’altro non avrà pensato a niente di particolare, forse a quel che doveva fare quel giorno, alla sua squadra preferita. Timbrare il cartellino di altri era diventato un banalissimo gesto quotidiano. E’ il concetto stesso di lavoro che è cambiato, appena 20 anni fa, 30 anni fa questi abissi tra le persone non sarebbero esistiti. Cosa vuol dire la parola lavoro ai tempi del precariato? Prendiamo il termine precario, significa “qualcosa che non dura” , una parola che diventa uno stato d’animo dal quale non riesci più ad uscire. Ti toglie il respiro. Precario viene da “prex”, prece, preghiera, che quindi vuol dire due cose: lo ottieni per “preghiera”, ovvero grazie ad altri, e “dura” quanto l’altro che te l’ha concesso decide che duri. Improvvisamente il tuo lavoro non dipende più dal tuo “valore” ma dal volere dell’altro. Diventi schiavo con catene invisibili. L’equazione si fa drammatica perché si finisce col pensare di non valere più nulla o che si vale solo e fin quando lo decide l’altro. Il lavoro non è più un valore. Primo Levi ha raccontato che ad Auschwitz aveva notato che i prigionieri-schiavi “facevano un lavoro ben fatto. Ho conosciuto un muratore che costruiva muri dritti e solidi non per obbedienza ma per dignità professionale. E odiava gli aguzzini”. Il lavoro quindi è espressione di sé, identità personale, creazione, affermazione dell’io. Col passare degli anni è venuta meno questa concezione, abbiamo perso il nostro “valore di pezzi unici”. Anzi, con la raccomandocrazia affiancata al precariato si è cancellato il concetto stesso di “unicità”. Non siamo più diversi, siamo sostituibili ogni qualvolta il concedente decide di farlo e se farlo. Siamo schiavi in balìa del concedente. Ed è così che abbiamo perso il senso del nostro “valore”. Ecco perché Giuseppe Burgarella ha scritto “se non lavoro non ho dignità”. Eppure se ci pensiamo, un altro suo concittadino e coetaneo il lavoro ce l’aveva, eccome. La dignità un po’ meno. Perché per lui quel lavoro non aveva valore. Se sono “precaria” alla fine mi convinco di “esserlo” nella vita e mi convinco di non avere più alcun valore come persona unica. Sempre penso che avevano ragione i Maya, c’è stata la fine del mondo, molto tempo fa, noi siamo morti dentro e solo i nostri gusci vuoti continuano a camminare. Abbiamo perso l’anima per strada e non ce ne siamo accorti. La bellezza di quella lettera d’addio lasciata dentro la Costituzione ancora oggi mi commuove e penso alla grande dignità di quest’uomo ed alla profondità della sua anima da operaio. Quando ero ragazza c’erano i fumetti di Mafalda. Ne ricordo sempre uno con Mafalda che si chiedeva: quando ho imparato le risposte mi cambiano tutte le domande. Quindi no, oggi non ho risposte alle domande che vengono da queste storie. Mi viene solo da strappare la pagina del giornale e dire, come Mafalda: fermate il mondo, voglio scendere.

Rosaria Brancato