Attualità

Dalla guerra al terremoto, le ferite degli altri sono anche le nostre

Nessuno si senta escluso. Le macerie del mondo ci appartengono. La guerra, i lutti e poi il sisma, altri lutti, altre crepe e crolli. Un terremoto di magnitudo 7.9 ha colpito il sud della Turchia e il nord della Siria. Mentre si scava tra le macerie, in un’immagine che si rinnova puntuale come una maledizione che attraversa i secoli, le fonti giornalistiche aggiornano il macabro bollettino delle vittime, quasi cinquemila morti, destinato a salire. Viene in mente un romanzo potente, “Vite che non sono la mia” di Emmanuel Carrère, e la sua narrazione di una vacanza in uno Sri Lanka colpito all’improvviso dallo tsunami. Una tempesta che sconvolse le coste del Pacifico.

Vite legate da una comune umanità

Noi siamo lontani e vicini, grazie ai mezzi di comunicazione, e possiamo percepire quanto sia drammaticamente reale la tragedia a cui assistiamo davanti ai nostri schermi. Sia nel caso del terremoto turco e siriano, o della guerra in Ucraina o negli altri luoghi del mondo violentati dalle armi, a essere coinvolte sono vite che non sono le nostre ma che lo sono al tempo stesso. Sono vite che appartengono a una comune umanità e che sono legate da un filo sotteraneo e spesso oscuro chiamato storia. I migranti morti per arrivare in Europa sono come i nostri antenati che tentavano la fortuna in America o in altri mondi. I corpi lacerati dalle bombe o sotterrati dalle macerie dovute al sisma sono come quelli dei nostri antenati in fuga dai bombardamenti o dagli effetti distruttivi del terremoto del 1908. Sembra una banalità ma non lo è: c’è un terreno comune, fatto di umanità e forza universale dei singoli tasselli di una storia più grande. E troppo spesso lo dimentichiamo.

Testimoni

Allora, come scriveva Carrère, anche noi giornalisti dobbiamo essere testimoni: “Da sei mesi a questa parte, ogni giorno, di mia spontanea volontà, passo alcune ore davanti al computer a scrivere di ciò che mi fa più paura al mondo: la morte di un figlio per i suoi genitori, quella di una giovane donna per i suoi figli e suo marito. La vita mi ha reso testimone di queste due sciagure, l’una dopo l’altra, e mi ha assegnato il compito, o almeno io ho capito così, di raccontarle”.

Così dobbiamo essere testimoni di tragedie individuali e collettive ma non per assecondare il pietismo, il sensazionalismo o la commozione usa e getta. No, bensì per riconnettere tutti, lettrici, lettori, operatori dell’informazione, a una dimensione più umana che ci permetta di ritrovare il senso di un’umanità a volte perduta. E anche di rintracciare il significato politico, culturale e sociale sotteso a ogni pezzo di vita che s’accumula nel caos del mondo. Un mondo perso dietro una bulimia d’informazione, non tutta di qualità. Avvicinarci a sentire ciò che provano gli altri può aiutarci, invece, a diventare cittadini migliori, più consapevoli. O almeno a provarci. Ripartiamo da qui. Dall’empatia.