“In fondo agli occhi”: viaggio al termine della luce

L’immagine che subito viene in mente è quella di un uomo bendato che da una vetta imprecisata viene spinto verso qualcosa. “Dove finirò?” Pensa. “Sarà solido? Liquido? Farà male?”

In fondo agli occhi” è un salto nel buio. Quel buio che ognuno di noi riempie di qualcosa. Paura, immaginazione, rassegnazione. O nulla. Il nulla dell’oscurità di chi decide deliberatamente di non voler vedere più ciò che lo circonda.

Gianfranco Berardi sale sul palco e, in un’esplosione di pura energia fisica, si muove impietoso tratteggiando un’immagine che è la perfetta rappresentazione del nostro Paese: una desolata palude di ricordi, umida e stagnante.

Le pennellate sono dure e sferzanti, ma il tocco resta quasi sempre leggero: l’ironia, costante e vivissima, infatti, attraversa la narrazione senza mai abbandonarla, neppure durante i momenti più tragici. Ad accompagnarlo, quasi in una dicotomica contrapposizione dionisiaco/apollinea, la compagna, la socia, la donna Gabriella Casolari, asciutta e rassicurante, rovescio di una medaglia che forse rovescio non ha. Il dramma della stasi, dell’incapacità di svoltare vita, infatti, lega i due protagonisti in modo indissolubilmente drammatico e li condanna ad un eterno rimandarsi di sentimenti contrastanti (toccante il momento in cui i due, in un gioco di movenze, si scambiano reciprocamente le lacrime).

Uno spettacolo immediato e personalissimo, “In fondo agli occhi”, che muove dalla vicenda autobiografica dell’attore pugliese, diventato cieco all’età di 19 anni per via di una malattia genetica, e si slancia verso la poetica di Cèsar Brie, in cui universale e autobiografico si abbracciano in un unico corpo narrativo, mirando ad un clinico e assoluto annientamento dell’individuo.

Tutto scorre, ma allo stesso tempo tutto resta fermo. E il cieco Tiresia non ci sta.

Sebastiano Russo