Quando le regole non fermano il rito. E quel filo del “non detto” fatto di simbologie

Avevo deciso, nei giorni scorsi, di dedicare la rubrica domenicale all’intervista di Vespa a Riina junior ed a quelle centinaia di cartelli affissi davanti alle librerie di tutta Italia: qui non si vende e non si ordina il libro di Salvatore Riina.

Poi, venerdì mattina ho sentito i botti esplosi al corteo funebre di Giuseppe De Francesco. All’inizio pensavo fosse una processione religiosa. Dopo i fuochi c’è stato un silenzio surreale e poi le sirene delle volanti. Il pomeriggio del giovedì il questore Cucchiara aveva vietato i funerali pubblici per il ventenne ucciso a Camaro sabato scorso. In quel momento, tra un colpo di petardo e il clamore dei motorini, ho pensato ad un’altra ordinanza, quella del sindaco di Benevento Fausto Pepe, dal forte valore simbolico, che vieta la vendita del libro nel territorio del suo Comune. Ieri pomeriggio ho sentito di nuovo quei botti, più forti e più a lungo. Mi son detta: non è possibile, stavolta sarà davvero una processione religiosa. Invece no. Non c’erano solo i botti, c’erano stati anche i palloncini rosa e bianchi che si erano librati nell’aria all’uscita della chiesa di San Luigi ed un corteo partito proprio da lì, dal cuore di Camaro e formato da ragazzi con le magliette tutte uguali, rosse, con stampata la foto del ventenne ucciso e la scritta “Giuseppe vive”, c’erano i cartelli con le sue immagini, decine di motorini a far da cordone, c’erano le voci in un unico coro e c’erano le saracinesche abbassate al passaggio. C’era stata la messa funebre, celebrata senza bara, da padre Nino Caminiti, ed il corteo ha raggiunto ugualmente il cimitero, bloccando per quasi un’ora il percorso.

Insomma, dopo il divieto di funerali pubblici ieri pomeriggio c’è stato un corteo funebre senza la salma. Quel che doveva essere è stato. Nonostante il provvedimento,nonostante le prime denunce nei confronti di quanti venerdì mattina avevano esplosi i fuochi d’artificio davanti al cimitero.

Così ho pensato che poche ore prima del corteo dei ragazzi di Camaro altri loro coetanei erano a Palermo, davanti alla sede Rai, insieme al sindaco Leoluca Orlando, per protestare contro l’intervista di Vespa al figlio di Riina. Orlando ha avviato azioni legali contro la Rai: “ Sono presente alla manifestazione quale sindaco della città per protestare contro un comportamento indecente da parte del servizio pubblico. Non possiamo accettare che la Rai sia genuflessa di fronte ai mafiosi e che applicato agli assassini mafiosi la par-condicio con le loro vittime”.

In questi casi pesa di più il “non detto”, la simbologia sottesa, il rito. Mi ha colpito quanto ha dichiarato a Gabriele Quattrocchi a proposito del libro di Riina Nino Crapanzano, della libreria Ciofalo: “Non si tratta soltanto di essere d’accordo o meno, questo libro potrebbe anche nascondere dei messaggi”.

E’ il farsi “strumento” , canale di diffusione del messaggio, che inquieta ed al quale i librai si stanno ribellando.

Il questore aveva vietato i funerali pubblici perchè aveva compreso cosa sarebbe accaduto. Ma le regole, le istituzioni, non hanno fermato la simbologia.

Mai avrei pensato che a Messina sarebbe accaduto qualcosa di simile a quanto visto a Roma, il 20 agosto scorso, per i funerali di Luciano Casamonica, con banda, petali di rose lanciati dall’elicottero, musica del Padrino. A Roma non c’era alcun provvedimento di divieto. Nel nostro caso invece abbiamo assistito ad un funerale pubblico senza la bara. Colpisce la stragrande presenza di giovani, tutti con la stessa maglietta, come una divisa, lo stesso coro. Colpisce come abbiano attraversato il viale Europa, via Catania, per arrivare fino al cimitero, ripercorrendo gli stessi passi di quel funerale del giorno prima che non era stato come avevano voluto. Anche la celebrazione nella chiesa di San Luigi, e che don Nino Caminiti ha deciso ugualmente di fare 24 ore dopo il funerale effettivo. E’come un altro stato dentro lo Stato, altre regole dentro le regole. Una sfida, ma soprattutto un messaggio. Così doveva essere e così è stato. L’ordinanza del questore ha solo ritardato di 24 ore quel rito fatto non solo perché da lassù qualcuno vedesse, ma soprattutto perchè qualcuno vedesse quaggiù. Quel corteo non è soltanto un gesto che ignora uno “specifico provvedimento”. E’ un’intera zona che usa lo stesso linguaggio per ignorare qualcosa che va oltre l’ordinanza di due giorni fa. Dovevano vedere tutti, dai magistrati, ai messinesi, dagli amici ai nemici.

Ecco perché Vespa ha sbagliato, perché si è fatto megafono del “non detto”. Abbiamo bisogno di gesti concreti, inequivocabili. Come quel gesto del sindaco di Benevento: “questa ordinanza ha un valore morale, è un atto di rispetto verso chi ha perso la vita in questi anni per combattere le mafie. So che è illegittimo e non ha fondamento giuridico ma la mia è una provocazione al clamore mediatico, vieto la vendita di un libro che offende quanti si battono per la legalità ogni giorno”. Ma è di questo che abbiamo bisogno, di atti che si toccano con le mani e con il cuore, che si ascoltano, che si fanno esempio.

Se accettiamo che il libro che tende a “normalizzare” la vita di un boss mafioso, quasi a renderlo esempio, stia in uno scaffale accanto a quei libri che narrano altri esempi, finiamo, con il normalizzare tutto.

Magliette con simboli diversi non possono convivere. Il 21 marzo migliaia di giovani hanno attraversato le nostre strade con la maglietta di Libera. Non possiamo mettere tutto nello stesso armadio e aspettare che siano i nostri figli a decidere da soli quale maglietta prendere. E’ compito di una comunità impedire che questo accada.

Rosaria Brancato