Il diritto alle pari opportunità, e non stiamo parlando di quote rosa

Ho trascorso l’ultimo decennio a dire a mio figlio che non appena presa la maturità l’avrei messo su un treno a lunga percorrenza. Pochi giorni fa mi ha annunciato che l’anno prossimo andrà a studiare fuori. Mi si è spezzato il cuore, 18 anni volano in fretta. Poi, due giorni dopo l’annuncio, hanno arrestato il preside della facoltà di farmacia, Giuseppe Bisgnano, e il professor Giuseppe Teti per un concorso truccato a favore di Carlo Bisignano, figlio di Giuseppe. E mi sono vergognata d’aver desiderato, anche solo per un’ora, che mio figlio restasse qui e cambiasse idea. Ho avuto vergogna del mio egoismo. E’ vero, 18 anni passano in fretta, ma il tempo è fermo nella tomba della meritocrazia.

L’hanno chiamata Pacta servanda sunt, l’operazione che ha svelato soltanto uno dei tanti casi di omicidio del merito che avvengono nel nostro Ateneo da decenni e non è un caso che l’abbiano chiamata così: i patti sono obblighi, una lunga catena di favori, oggi ne faccio uno io a te così tu domani nei fai uno a me. Da questo orrendo patto scaturiscono una serie di reati invisibili, e che non riguardano semplicemente, come si pensa il furto del futuro, ma anche del presente. Perché è oggi che noi costruiamo il domani. Il furto è avvenuto oggi e non mi riferisco a come una normativa statale ed una procedura concorsuale vengono asservite ad una logica baronale, ma alle conseguenze immediate che la furbizia causa alla città. Condivido la proposta del consigliere comunale Piero Adamo che ha chiesto all’amministrazione comunale di costituirsi parte civile al processo. E’ l’intera comunità che paga le conseguenze di una classe dirigenziale scelta con la logica della famiglia e del favore. E qui entra in gioco il concetto di pari opportunità. E’ probabile, anche se non statisticamente certo, che sull’elevato numero di ricercatori, professori, docenti, vertici dirigenziali, medici, biologi, dottoroni e luminari, assunti con questo criterio, ovvero essere figli di, parenti di, amanti di, amici di e via discorrendo, vi siano anche persone capaci e competenti.

Il problema non è la qualità del singolo, per quanto io possa dubitarne, perché se cresci sapendo che la pappa pronta ce l’avrai comunque e per sempre, difficilmente impari l’arte del vivere e dell’impegnarti. Il problema è quello delle pari opportunità tra uguali ed è per questo che in Italia e nel mondo intero esistono le procedure di selezione. Altrimenti saremmo ancora nel feudalesimo. Tra due persone ugualmente brave il concorso si fa per scegliere la migliore. Solo così un Ateneo diventerà il migliore, quell’albero che fa frutti dolcissimi e rari, quella comunità che crea i migliori figli, che andranno magari all’estero, ma per scelta personale e per ottenere riconoscimenti per la città. Solo così avremo i migliori medici, i migliori professori, i migliori avvocati e ingegneri, solo così avremo i migliori che insegneranno ai futuri figli a volare da soli. Se il gioco è verso il basso paga l’intera comunità. Quando uso il termine pari opportunità non mi riferisco solo alle borse di studio ma a quell’essere esattamente sulla stessa linea al nastro di partenza, tutti, belli e brutti, intelligenti e asini, raccomandati e non, gente che paga e morti di fame. E’ quando parte lo start che il progresso va avanti, che qualcuno inventa la ruota e il vaccino per la poliomelite. Se quando parte lo start hai sparato agli altri concorrenti o gli hai legato le gambe, il tuo protetto vincerà la gara ma tu hai perso il campionato. Il trucco non è squallido solo perché garantisce uno stipendio sicuro a un familiare, è squallido perché evita alla comunità di diventare grande. L’omicidio avviene oggi, domani è già tardi. I migliori avranno studiato altrove e trovato lavoro altrove.

Il furto è del presente, perché è oggi che i figli devono avere le pari opportunità di restare, è oggi che questa classe dirigente insegna, esercita, opera. E’ oggi che siamo scesi di un altro gradino. Piano piano rischiamo di farceli tutti questi gradini, fino al sottoscala. E qui andiamo alla seconda considerazione, quella fatta dal Senato Accademico e cioè che si tratta di casi isolati. A prescindere dalle precedenti inchieste che in questi anni hanno portato l’Ateneo messinese nelle prime pagine di tutti i quotidiani, a prescindere dal servizio delle Jene lo scorso febbraio (che potete rileggere in allegato giusto per rinfrescarci la memoria) il problema non è l’unanimità del metodo, ma il rischio di creare un sistema. A far paura sono le parole della vittima dell’ultimo concorso, quel Salvatore Papasergi che quanto a punteggio risultava più del doppio del figlio di Bisignano che poi ha vinto. Papasergi, contattato da Teti, decide di rinunciare a presentarsi agli orali, in cambio di una promessa per una futura sistemazione. “Benchè la scelta di non presentarmi alla discussione finale possa apparire illogica ed auto lesiva- spiega ai finanzieri che lo interrogano- ritengo che ciò può aver avuto un senso perché non faccio parte di un certo giro e devo stare a quel che mi viene consigliato”. E’ la stessa vittima del furto (lo hanno scippato di una carriera, di uno stipendio, di un sogno) ad accettare il fatto perché crede di avere di fronte un sistema inattaccabile. Che un intera comunità di studenti abbia accettato lo status quo è provato dal numero dei partecipanti al concorso: tre. Lo stesso dicasi per altri bandi, a riprova di come gli studenti vivano il sistema stesso. Quando un sistema viene vissuto come inattaccabile la conseguenza è la rassegnazione, quel dire “io neanche ci provo”, quell’andare via.

Non ho dubbi che il nuovo corso intrapreso dal’Ateneo porterà i suoi frutti, per quanto radici appena piantate abbiano bisogno di anni per crescere ed a volte, i danni causati da un sistema malato e parassitario sono enormi. Non mi piace generalizzare e ci sono docenti, ricercatori, professori,assistenti, di grande spessore, competenza e qualità. Ma quando nel’immaginario collettivo degli stessi studenti spunta quella frase terribile “non faccio parte del giro”, quando un ragazzo di 25 anni si rassegna al punto di rinunciare a mettersi nei nastri di partenza, dobbiamo interrogarci. Non è un caso isolato, e lo sappiamo tutti. Prenderci in giro non servirà ad evitare che altri 18enni se ne vadano e non partecipino ad alcun concorso. Un Ateneo non può trasformarsi in una tribù di famiglie e affini, perché ogni società chiusa non ha futuro e non è competitiva. Buon lavoro professor Navarra, quanto a mio figlio, come direbbe il film non gli resta che dire: “io speriamo che me la cavo”.

Rosaria Brancato