Polonia, fine anni ’50. Anna, una novizia che ha passato tutta la sua vita tra l’orfanotrofio e il convento, scopre di essere in realtà Ida, di essere una suora ebrea: sua zia Wanda, incontrata per la prima volta pochi giorni prima di prendere i voti, le svela la verità sulla sua vita. I suoi genitori ed un fratellino erano ebrei e durante la guerra erano stati uccisi dall’uomo che inizialmente li aveva aiutati a nascondersi. Decidono allora di partire per trovare l’uomo e il posto dove erano stati seppelliti, dal momento che non ci sono tombe per gli ebrei.
Durante la ricerca, inevitabilmente Anna viene influenzata dalla personalità della zia. In una scena, questa, ubriaca, le dice: “Certo, io sono una puttana e tu una santa! Questo tuo Gesù amava la gente come me …”. Ma è quando conoscono un giovane musicista che fa l’autostop che, sin dalla sbirciata fugace allo specchietto retrovisore, la bellezza semplice e infantile della protagonista prende lentamente coscienza di sé, a partire dai capelli.
Trovano l’uomo, o meglio il figlio di questi, che dopo averle portare nel punto del bosco dove la famiglia era seppellita, scava la terra ghiacciata e preso dai rimorsi racconta di come era stato costretto ad uccidere pure il bimbo perché circonciso e di aver potuto salvare Ida.
Ciò che segue è per Wanda tragico e inevitabile, mentre in Anna-Ida avviene la trasformazione da fuco a farfalla, seguendo i consigli della zia, e vivendo comunque un giorno solo.
Wanda, figura drammatica della storia, tratteggiata con una psicologia profonda: sin da quando la si vede nel suo ruolo di giudice, con lo sguardo perso nel vuoto che sarà una caratteristica presente in tutto il film, ad ascoltare una causa contro un compagno accusato di antisocialismo, poi dal suo alcolismo cominciato a dodici anni e gli uomini che durano una notte, si comprende quanto sia in crisi, e desideri annullarsi per dimenticare di essere sopravvissuta per essere andata a combattere, ed essere rimasta sola.
“Ida” è un film unico sul tema della Shoa, non tanto per la storia in sé, ma per la bellissima fotografia degli scorci boschivi e cittadini, e la scelta del bianco e nero, che per quanto possa rimandare a “Schindler’s list”, è tutt’altro genere di film: le inquadrature sono perfette, al punto che con tutte messe a fermo immagine si potrebbe creare una mostra fotografica; sembra di guardare un film della Nouvelle Vague, invece è giusto del 2013, e certamente c’è qualche influsso dal grande regista Kieslowski. Certo è un peccato che queste opere di nicchia passino inosservate al grande pubblico.