Cultura

“Il buco”, film sulle privazioni, sull’abbondanza e sulla redenzione

Il buco: questo il titolo di un film che su Netflix in questi giorni sta scalando la classifica dei più visti in Italia. Un horror, questo è certo. Eppure c’è qualcosa di più, di diverso, di eccedente rispetto al sangue (che, lo garantiamo, non manca). Il buco dice qualcosa di diverso, parla all’uomo di tutti i tempi, racconta la sua condizione mortale e la via per la salvezza (eterna).

In rete circolano molti articoli che tracciano un parallelo tra il film e la condizione di reclusione cui siamo tutti costretti in questo periodo di coronavirus. Eppure non ci sembra, a dirla tutta, che questo paragone regga. È pur vero che Il buco racconta dell’esistenza di personaggi che vivono in spazi ristetti, una stanza solamente per l’esattezza: una enorme prigione verticale con un buco in mezzo – appunto – in cui passa una piattaforma imbandita di tante leccornie. Ogni giorno la piattaforma si sofferma per qualche minuto in ciascun livello, permettendo alle persone di nutrirsi, per poi proseguire il suo percorso discendente. Va da sé che più la piattaforma scende e più manca il cibo per coloro che vivono giù.

No, il paragone con la quarantena odierna è facile ma per nulla azzeccato. Il film, che è il primo lungometraggio dello spagnolo Galder Gaztelu-Urrutia, ha un portato simbolico che trascende la quarantena – e che non parla nemmeno, come ha detto qualcuno, della società contemporanea, socialmente e retoricamente ingiusta. E infatti un personaggio, parlando dei primi livelli, quelli che hanno a disposizione la tavola perfettamente imbandita, dice «Loro hanno cibo ma niente da aspettare e troppo da pensare», e quindi talvolta si suicidano, mostrando che una sorte straziante non è solo condanna di coloro che stanno in basso. In questo senso, il film non tratta solamente delle sofferenze della privazione ma anche delle angosce dell’abbondanza.

Il film, coraggioso thriller/horror distopico e fantascientifico, scandaglia l’orrore, la violenza, la miseria e la meschinità umana. Ma non solo. C’è – esiste, è là – il desiderio di riscatto, la presa di coscienza del male e la volontà di inceppare il meccanismo: in altre parole, il film parla anche del bello e del giusto che anima l’essere umano. Impossibile dunque non trattare del desiderio di redenzione che l’ultima parte del film non può tacere perché tacerlo sarebbe un’ingiustizia verso l’uomo e la sua natura. E così, scendere nell’abisso, inoltrarsi nell’oscurità, non assume il facile ed errato significato di diventare mostri, bensì tutto il contrario.

Purezza e felicità sembrano essere due elementi estranei alla struttura della prigione verticale, e presto tutti i suoi abitanti finiscono per abdicarvi. Infatti, quale innocenza può esserci in una prigione dove persino atti di cannibalismo sono inevitabili? Eppure il finale del film non si arrende all’orrore. Un film raro che merita tutto il plauso del pubblico.