“PIAZZA FONTANA e il mito della strategia della tensione” di Massimiliano Griner

Nell’arco di cinque anni, fra il 1969 e il 1974, in Italia si sono contati 4.000 attentati e sei stragi: in piazza Fontana a Milano (12 dicembre 1969), sulla Freccia del Sud presso Gioia Tauro (22 luglio 1970), a Peteano (31 maggio 1972), alla questura di Milano (17 maggio 1973), in piazza della Loggia a Brescia (28 maggio 1974) e infine sul treno Italicus (4 agosto 1974). Il bilancio è stato di 50 morti e di circa 2.700 feriti.
L'Autore parte dunque da Piazza Fontana per rievocare gli anni più bui della nostra Repubblica e per capire se l'interpretazione dominante di quelle stragi e di quel periodo – la cosiddetta "strategia della tensione" – rimane convincente ancora oggi.
Massimiliano Griner si è documentato, ha esplorato archivi, ha parlato con i protagonisti dell'epoca, ha studiato gli atti processuali e parlamentari, fatto interviste, spulciato dossier e, soprattutto, si è posto domande e ha analizzato, senza pregiudizi, l'interpretazione classica, canonica. Quella secondo cui, in piena Guerra Fredda, c'è stato un tentativo di destabilizzare la situazione politica italiana, creando uno stato di tensione attraverso attentati per terrorizzare la popolazione, con l'obiettivo di instaurare un regime autoritario.
Come un "avvocato del diavolo" Griner parte dalle ricostruzioni comunemente accettate ed esamina le "verità" acquisite e, da storico, si chiede quale e quanta consistenza abbia la teoria – o meglio il dogma, il "mito" – della strategia della tensione, mai messa in discussione.
Riprende gli episodi più duri – per esempio la morte di Pinelli – e determinanti per capire e definire quel periodo storico, e cerca di dare delle risposte, cambiando la prospettiva con cui generalmente li si guarda.
L'Autore non svela presunti retroscena, non fa rivelazioni spettacolari, non ha inseguito documenti coperti da "segreto di stato", perché non ha mai creduto che questa sia la strada giusta per arrivare alla verità. Rilegge invece i fatti di quegli anni con un occhio e un giudizio scevro da teorie precostituite, coltivando il dubbio e gettando quindi una nuova luce su quegli avvenimenti. Opera una sorta di revisionismo "pulito", tenta di dissipare un'illusione, sfatare un "mito" creato politicamente ad arte.
La sua ricostruzione si rivolge a chi conosce la storia ma vuole rileggerla da una nuova prospettiva, e a chi, magari molto giovane, ha bisogno di conoscere un pezzo così importante di storia italiana. È un libro dedicato a chi ha vissuto quelle tragedie, ma soprattutto a quanti ancora vogliono capire.
Non un libro ideologico e "vendicativo", non una storia giudiziaria, ma una riflessione storica su un periodo fortemente connotato politicamente, che ha condizionato la società, il pensiero e gli eventi e che continua a farlo anche oggi.
L'AUTORE
Massimiliano Griner, nato a Milano nel 1970, storico, giornalista, sceneggiatore, è autore dei volumi: Contropotere. La notte della Repubblica e i giornalisti che hanno cercato di fare luce (Nutrimenti); I ragazzi del ’36. L'avventura dei fascisti italiani nella guerra civile spagnola (Rizzoli); La pupilla del Duce. La legione autonoma Ettore Muti;La banda Koch. Il reparto speciale di polizia 1943-44 (entrambi editi da Bollati Boringhieri).
DAL LIBRO
Nonostante l’ondata di attentati, com’è noto in Italia il colpo di stato non si realizzò. Si registrarono però alcuni tentativi significativi, come il golpe Borghese, il cui fallimento rimane tutt’ora senza spiegazione. In ogni caso la strategia della tensione avrebbe avuto comunque successo, perché avrebbe contenuto la crescita del PCI, ne avrebbe impedito l’accesso al governo, e avrebbe assorbito l’ondata di protesta del ’68, lasciando pressoché intatto il sistema politico e sociale. In estrema sintesi, questa era, ed è tutt’ora, l’interpretazione dominante di quelle stragi e di quel periodo storico.
Personalmente questa ricostruzione non mi ha mai convinto. È vero che soddisfaceva le esigenze di una parte della classe politica, quella tradizionalmente all’opposizione, la quasi totalità degli intellettuali e dell’opinione pubblica informata. Ma finiva con il dipingere lo stato, il nostro stato e le sue istituzioni, come un centro di irradiazione del terrorismo. Di una forma di terrorismo che non a caso fu detta «di stato». E questo, secondo me, equivaleva a delegittimarlo completamente. Comportava, tra l’altro, che il più importante partito popolare, la Democrazia Cristiana, fosse un’accolita di assassini, e così l’Arma dei Carabinieri, per la quale nutro quel rispetto che è comune tra gli italiani. Una ricostruzione simile era destinata a dividere il paese, anziché unirlo.
Naturalmente non mi opponevo per partito preso ad accuse tanto gravi. Ero disposto ad accettarle, con tutte le conseguenze che comportavano e che molti tendono a sottovalutare. Ma a un patto. Che fossero dimostrate al di là di ogni ragionevole dubbio.
Se avessi continuato a interrogarmi su quel periodo all’interno del quadro interpretativo dominante, non avrei prodotto altro che l’ennesima versione compatibile con il canone. Senza per questo fare fronte all’esigenza che mi premeva di più.
Finalmente capii cosa dovevo fare. Dovevo spostare l’attenzione sul canone stesso. Analizzare come l’interpretazione di quei fatti tragici aveva generato un carico di odio che tutt’ora permea la nostra cultura, sottraendoci un bene di cui nessun paese può fare a meno: una memoria storica condivisa.
C’erano molte cose che in questa interpretazione non tornavano. Prima tra tutte la presunta fragilità del nostro sistema politico, che rendeva particolarmente credibile l’allarme di un possibile golpe. Indubbiamente molto di quello che aveva caratterizzato il fascismo – uomini, istituzioni, mentalità, e dunque la tentazione di imboccare scorciatoie autoritarie – era stato ereditato dall’Italia repubblicana, passando indenne attraverso un’epurazione mite e una serie di riforme democratiche promesse e sempre rinviate.
A quindici anni dalla fine della guerra, però, l’Italia occupava una posizione tra le nazioni del cosiddetto mondo libero, ed era messa efficacemente al riparo dall’insidia sovietica grazie all’ombrello americano. La democrazia parlamentare era felicemente attecchita e, nonostante tutto, aveva una solida base: l’altissimo tasso di elettori che si recavano regolarmente alle urne, uno tra i più alti d’Europa, e i milioni di iscritti a partiti popolari e a sindacati. Di contro, i nostalgici eredi del fascismo rappresentavano una netta minoranza, ghettizzata e rancorosa.
Quali migliori garanzie avremmo potuto avere da opporre a svolte autoritarie? Semmai a sostenere che la democrazia italiana fosse fragile e a rischio erano uomini di governo come Aldo Moro, e lo facevano per rivendicare il ruolo cruciale del loro partito moderato e allontanare la possibilità di un’alternanza al governo.
In questo contesto, era plausibile che qualcuno meditasse seriamente un colpo di stato?
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Mi ero posto anche un altro interrogativo. Era plausibile il coinvolgimento in questa strategia di grandi esponenti dei partiti di governo? Per quale motivo uomini come Rumor, Andreotti o Fanfani, che appartenevano a una inossidabile classe di governo, che non prevedeva ricambio dalle elezioni del 1948, abituati a succedersi gli uni agli altri nelle cariche più importanti del paese, si sarebbero compromessi in attività eversive contro istituzioni che già incarnavano a tutti gli effetti? Anche se vi fosse stata una svolta autoritaria, la quantità di potere nelle loro mani sarebbe aumentata in modo tanto decisivo? È difficile anche solo figurarselo, perché le altre persone coinvolte nel progetto, quali che fossero, avrebbero sicuramente chiesto una pesante contropartita.
La stessa domanda me la ponevo pensando a uomini che ricoprivano importanti ruoli nell’esercito, nell’Arma, nei servizi segreti e nelle forze dell’ordine, uomini perfettamente integrati in un sistema che dava loro un impiego ben retribuito, scatti di anzianità, alloggi a tasso agevolato e altri benefit. Per quale motivo avrebbero dovuto mettere in discussione la Repubblica che era stata tanto generosa nei loro confronti?
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Anche l’ipotesi che la cabina di regia si trovasse a Washington mi lasciava piuttosto perplesso. Provavo a vedere le cose dal punto di vista degli americani, e mi domandavo come avrei agito al loro posto. Era plausibile che rientrasse nei loro interessi destabilizzare la situazione politica italiana? Un paese a sovranità limitata che aveva rinunciato di fatto alle prerogative di stato sovrano in nome dell’alleanza, certamente non paritaria, con gli Stati Uniti?
Anche questa tesi sembrava, a conti fatti, difficilmente sostenibile. Era vantaggioso convertire o, meglio, tentare di convertire una democrazia di stampo occidentale e filoatlantica in una dittatura militare? Per dirla in altri termini, valeva la pena materializzare il caos dove invece c’era un ordine, per quanto imperfetto, e rimettere in gioco un paese su cui gli americani avevano già apposto la loro bandiera a stelle e strisce?
Considerando infatti il peso del PCI e dei sindacati e l’aiuto che indubbiamente avrebbero ricevuto dall’URSS, l’ipotesi che un golpe scatenasse una guerra civile dai costi umani e materiali molto alti non era affatto da escludere. Gli ipotetici vantaggi valevano le traversie certe? A conti fatti, è difficile dare una risposta positiva.
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Un altro aspetto di questa ricostruzione che non mi ha mai convinto è la teoria che lo stragismo fosse uno strumento di stabilizzazione. Indubbiamente non si può escludere che la popolazione, davanti a un’escalation della violenza indiscriminata, si stringa intorno alle istituzioni e preferisca rinunciare a una parte significativa dei propri diritti in cambio di un’illusoria sicurezza. Ma non riuscivo a ignorare la possibilità che questo metodo possa sortire effetti esattamente contrari. Quando governi e istituzioni si mostrano del tutto incapaci di prevenire ondate consistenti di violenza, o quantomeno di punirne i colpevoli, a crescere a dismisura può essere proprio la disaffezione dei cittadini nei confronti del governo, delle istituzioni e, più in generale, della classe politica, inducendo cambiamenti di tutt’altro segno. E questo sembra esattamente il caso italiano. La lunga stagione delle stragi non indebolì affatto né il Partito Comunista (che anzi si rafforzò in modo significativo), né quella che all’epoca era chiamata sinistra extraparlamentare (da Potere Operaio a Lotta Continua, da Avanguardia Operaia a Autonomia Operaia), in continua crescita per tutti gli anni ’70.
C’era poi qualcos’altro che non mi tornava, in questa interpretazione. Il ruolo previsto per i neofascisti. Nella migliore delle ipotesi erano stati una manovalanza strumentalizzata, non diversamente dagli anarchici: utili idioti al servizio di un progetto reazionario. In quella per loro peggiore, riproposta recentemente da Paolo Cucchiarelli in Il segreto di piazza Fontana, sarebbero stati dei consapevoli esecutori, perfettamente inseriti nel disegno criminale, membri a tutti gli effetti di organizzazioni parastatuali.
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La scoperta che i fascisti erano più autonomi e soprattutto meno perversi di come li dipingessero la retorica resistenziale e la propaganda avversa mi incoraggiò a domandarmi se per caso un meccanismo simile a quello che aveva stigmatizzato i fascisti non avesse intaccato anche le ragioni del neofascismo, rinato nel dopoguerra proprio dalle ceneri della Repubblica Sociale. Se per caso le versioni che toglievano dignità e autonomia alla loro lotta politica non fossero viziate dal medesimo pregiudizio, e se insomma non fosse il caso di attribuire finalmente anche ai neofascisti, come ai fascisti che li avevano preceduti, un’autonomia di azione, accettando che potessero giocare la loro partita, essere padroni di sé e, in definitiva, completamente responsabili dei loro atti. In sostanza, se fosse possibile non guardarli solo come repliche di Attila Melanchini.
In proposito mi parve illuminante una delle rarissime interviste concesse da Franco Freda, senz’altro la più importante figura intellettuale della destra eversiva, a cui questo libro dedicherà molte pagine. Processato e assolto per la strage di piazza Fontana, Freda non ha mai smesso di rivendicare la genuinità della sua lotta contro il sistema: «Entro i limiti umani di un miliziano, la mia milizia politica ha cercato di attuare ciò che il sentimento del mondo in cui mi riconosco suggeriva».