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Lo sviluppo dei “pirocumuli etnei”, le imponenti nubi vulcaniche simili ai cumulonembi

I brevi ma intensi parossismi degli ultimi giorni, come da copione, hanno favorito lo sviluppo di gigantesche nubi di calore, cariche di cenere e materiale di natura vulcanica poi ricaduto nelle aree circostanti del catanese. Sempre la scorsa settimana, grazie alla presenza di una ventilazione più orientale in alta quota, alcuni detriti, appartenenti ai resti di queste nuvole vulcaniche, hanno raggiunto persino il Tirreno e l’area di Palermo. Queste imponenti nuvole di cenere, specie di fronte ad imponenti processi esplosivi, oltre a raggiungere una mole notevole, arrivando a sfondare fino in stratosfera, possono presentano caratteristiche simili a quelle dei cumulonembi, le nuvole temporalesche per eccellenza.

Il pirocumulo etneo di ieri mattina fotografato da Bronte. Scatto realizzato da Alberto Luca

Non tutti sanno che importanti fonti di calore, rappresentate da grossi incendi o eruzioni vulcaniche (questo è il caso), sfogando in troposfera possono accelerare i processi di cumulogenesi dando origine a grosse nuvole cumuliformi chiamate “pirocumuli”. Questo particolare tipo di nuvole, caratteristiche delle eruzioni vulcaniche, appartengono alla famiglia dei cumuli. Proprio come i cumuli e i più imponenti cumulonembi temporaleschi (che possono superare i 10-12 km di altezza) i “pirocumuli” crescono in altezza per convezione, venendo alimentati da fonti di calore di una certa consistenza, derivate appunto da grossi incendi o eruzioni vulcaniche di tipo esplosivo, che favoriscono lo sviluppo delle cosiddette “termiche”, le intense correnti ascensionali che generano l’imponente nube cumuliforme. Proprio come avviene con i temporali di calore, caratteristici del periodo estivo, anche nel caso dello sviluppo dei “pirocumuli” assistiamo alla formazione di una “bolla di aria calda e umida”, associata al fumo e alla nuvola di cenere sprigionata dall’eruzione, che dal suolo tende ad ascendere verso la troposfera, salendo sempre più di quota e raffreddandosi.

Pirocumulo etneo in formazione osservato da Dinnamare. Foto realizzata dal fotografo naturalista Michele Ungaro

Questa “bolla di aria calda e umida”, mischiata alla cenere e ai gas prodotti dalla stessa eruzione, progredisce verso l’alto. Raggiunta una determinata quota parte del vapore acqueo contenuto in seno a questa nuvola di detriti vulcanici comincia a saturarsi, con l’attivazione del processo di condensazione che determina la nascita della nube stessa. Generalmente, quando si avvia il processo di condensazione, si aggiunge ulteriore calore latente di condensazione che sommandosi al calore proveniente dalla fonte di calore (il cratere vulcanico) continua a supportare l’attività convettiva, con forti moti ascensionali che contribuiranno a far crescere in altezza il “pirocumulo”. Solitamente questo tipo di nubi detritiche, dalla base non sempre ben determinabile per via delle colonne di cenere sollevate dall’irruenza dell’eruzione, possono raggiungere un notevole sviluppo verticale, arrivando fino al limite superiore della troposfera, e in qualche caso a bucare la troposfera sfondando fino in stratosfera, con la classica incudine (simile a quella dei grandi cumulonembi) che a quelle quote, con temperature largamente negative, fino a -50°C -60°C, tende interamente a ghiacciarsi ed espandersi in orizzontale.

I resti del pirocumulo etneo di ieri in fase di dissoluzione ripreso dal satellite Terra della Nasa. Si nota pure la striscia nera legata alle precipitazioni di cenere e materiale lavico che interessava l’alto catanese e i paesi etnei del versante orientale

Se il “pirocumulo”, dopo aver esaurito tutta la quantità di vapore acqueo a disposizione, riesce a superare i 10-12 km di spessore, arrivando a sfondare fino in stratosfera, può anche produrre attività elettrica, come nei cumulonembi, e precipitazioni sotto forma di granelli di cenere e materiale lavico in caduta dalla base della stessa nube vulcanica, come avvenuto nella mattinata di ieri in molti paesi etnei, lungo il versante orientale dell’Etna. Nelle fasi più parossistiche di una eruzione, quando un pennacchio di ceneri sovrasta il vulcano, non è infrequente notare la presenza di fulmini. I fulmini associati alle eruzioni vulcaniche iniziano a manifestarsi parecchi minuti dopo che è avvenuta l’esplosione, quando la nuova nuvola di cenere si sta strutturando. I fulmini vengono innescati dalle particelle sospese di materiali vulcanici che compongono la nube, nei quali si attivano meccanismi di accumulo di carica elettrica opposta che alla fine scatenano la scarica elettrica all’interno del “pirocumulo”.

Probabilmente a guidare l’accumulo di differenza di potenziale elettrostatico contribuiscano in parte le rotture delle piccole particelle che costituiscono la nube, già precedentemente squilibrate dal punto di vista elettrostatico. Il merito maggiore però viene attribuito alle frequenti collisioni fra le particelle che avvengono proprio all’interno della nuvola vulcanica. Anche se producono fulminazioni i “pirocumuli” non vanno confusi con i cumulonembi, che presentano delle fonti di calore più propriamente “atmosferiche” (e non vulcaniche), come una massa d’aria calda e molto umida preesistente nei bassi strati. Anche se raramente, ma solo in casi davvero eccezionali, come capitato attorno alcuni vulcani indonesiani, si è assistiti all’evoluzione di grossi “pirocumuli” in veri e propri cumulonembi temporaleschi che hanno prodotto intense precipitazioni miste a sabbia vulcanica.