I funerali show di Camaro, alla ricerca di una giustizia distorta. I precedenti

Si indaga sui “funerali show” di Giuseppe De Francesco, celebrati di fatto ieri pomeriggio, dopo che il rito funebre vero e proprio, venerdì, era stato “blindato” dal divieto emanato dalla Questura. Un caso più unico che raro, quello verificatosi a Camaro, visto che il corteo, una vera e propria processione celebrativa, si è mosso senza neppure un feretro. Il corpo del ragazzo è stato tumulato venerdì mattina al gran Camposanto.

Anche se non è forse possibile contestare una vera e propria violazione delle prescrizioni, quindi, quello che è andato in scena ieri tra Camaro San Luigi e il Cimitero è un evento già sotto la lente degli investigatori. Molti gli spunti d’indagine forniti, sia sul fatto stesso ma soprattutto per la ricostruzione del delitto di due sabati fa. Una vera e propria autocelebrazione, impossibile negarlo, di un ambiente che è, e deve restare , intoccabile, anche se non si tratta certo di un contesto di primo piano, nella geografia criminale cittadina. Giuseppe è stato invocato ieri dai giovanissimi del suo quartiere, che hanno chiesto per lui “giustizia”. La preoccupazione, adesso, è che questa ricerca di giustizia si trasformi in vendetta. Giustizia per un ragazzo irrequieto, da impensierire anche il patrigno, non certo nuovo a fatti criminali.

I precedenti del ventenne ferito mortalmente il 9 aprile, infatti, delineano il profilo di un giovanissimo emergente che creava scompiglio, imponendosi anche su quei deboli solitamente compatiti anche da chi della supremazia faceva una regola di vita. Forse chi gli ha sparato non voleva ammazzarlo, forse ha reagito per dargli una lezione, al culmine di una lite. Di più: chi gli ha sparato non covava né rancori né acredini nei confronti dei familiari di Giuseppe – questi gli spunti d'indagine più accreditati.

Sicuramente quello di ieri era un segnale tutto “interno”: il megafono in testa al corteo che si è mosso da San Luigi si udiva chiaramente anche a San Paolo; la messa di celebrazione è stata annunciata con un necrologio chiaro, dove al nome del ragazzo era accostato il cognome del patrigno, il cognome che “conta” e risuona, insomma. E che Giovanni adoperava ordinariamente, preferendolo al suo.

Certo, più che mai è stata una sfida ai tutori dell’ordine; anzi, peggio: i divieti, vigenti effettivamente o meno, non sono stati aggirati, sono stati totalmente ignorati. Così come venerdì chi ha sparato i petardi non voleva neppure sfidare i poliziotti presenti al corteo, voleva “semplicemente” omaggiare Giuseppe, in barba a qualunque divieto.

Non è semplice per le forze dell’ordine e la magistratura muoversi in un contesto così delicato. Nel febbraio scorso a Palermo i poliziotti hanno sapientemente “prevenuto” un funerale mafioso. Quello di Antonino Cinà. Impossibile vietare le esequie pubbliche, visto che il defunto non aveva precedenti per mafia. La sua personalità però era di spessore, ed ancora di più lo è quello dei cognati, gli Abbate della Kalsa, in prima fila al corteo funebre. Tanti gli agenti in borghese presenti alle celebrazioni, che hanno bloccato per detenzione di materiale esplodente quelli che all’uscita della chiesa hanno dato fuoco alle micce, fermando anche molti altri per un controllo.

Proprio ieri il Questore di Palermo ha vietato i funerali pubblici per il boss di Villagrazia, Mariano Marchese.

Nell’ottobre scorso furono limitati alle esequie private i funerali del boss di Barcellona, Filippo Barresi, e nel gennaio 2013 sono state vietate le esequie pubbliche del suo fedelissimo, il quarantunenne Giovanni Perdichizzi, freddato in un bar del quartiere barcellonese di Sant’Antonio.

Nel novembre 2010 fece discutere l’omelia del parroco di Villa Lina, la zona del quartiere Giostra che aveva dato i natali, e anche l’estrema unzione, al boss della zona, Giuseppe Mulè “culu niuru”. Impossibile dimenticare, infine, anche se non di funerale si tratta, il marzo 1994: il boss del Cep Iano Ferrara viene ammanettato in mezzo ad una folla che lo applaude e cerca di sottrarlo ai poliziotti. Il “boss buono” allora aveva 32 anni, fece i complimenti agli agenti che lo arrestarono, un mese dopo si pentì autoaccusandosi di aver dato l’assenso ad omicidi, aver compiuto rapine ed estorsioni.

Negli applausi del quartiere di allora, così come nello “sfregio” in maglietta rossa di oggi, nel commento del parroco di Camaro che ha parlato di una omertà “comune a tutta l’Italia”, si nasconde quel filo rosso che imbastisce la trama gommosa, vischiosa, sottile e impalpabile, avvolgente e quasi rassicurante che impedisce a tutti noi di liberarci di un habitus che ha un solo aggettivo. Un aggettivo che non ha nulla a che fare con la famiglia, ma soltanto con la mafia.