Su dissesto & affini girano alcune “leggende metropolitane”, che attecchiscono grazie alla confusione ed alla scarsa informazione sul tema, scatenando il panico tra gli interessati, ovvero i consiglieri comunali, pronti a tutto pur di mantenere il posto. Anche chi sta “fuori” dal Palazzo però, a furia di ascoltare le leggende le ha prese per vere. Cerchiamo quindi, nei limiti del possibile e con un linguaggio meno giuridico per renderlo più chiaro, di eliminare la parte “leggendaria” e spiegare quella reale.
LEGGENDA METROPOLITANA n°1) In caso di dissesto il consiglio comunale va a casa.
Questo è il peggiore degli spauracchi per i 40 eletti nel 2013 ed il sogno segreto per quanti invece vorrebbero, per i più svariati motivi, mandarli a casa il più presto possibile. I fatti non stanno affatto così, non solo l’addio alla poltrona in caso di dissesto non è immediato ma non è neanche scontato e automatico. Vediamo sinteticamente come funziona il meccanismo. Supponiamo che, dopo l’ok del Ministero la Corte dei conti valuti negativamente il Piano di riequilibrio e dia il diniego all’approvazione. Il Comune potrà impugnare la sentenza entro 30 giorni davanti alle sezioni riunite della Corte dei Conti in speciale composizione (art. 243 ter, Tuel n°267 del 18 agosto 2000), come avvenuto lo scorso anno a Reggio Calabria (dove è stata ribaltata la decisione di gennaio). Se anche la Corte dei Conti in sezioni riunite conferma il diniego si avvia l’iter per il dissesto, in caso contrario scatteranno i controlli semestrali per verificare il rispetto degli obiettivi fissati dal Piano. Qualora non vengano raggiunti scatterà ugualmente l’iter. Cosa accade a questo punto? In tutti i casi in cui, come detto la Corte dei Conti avvia il procedimento, assegna al Consiglio comunale il termine di 20 giorni per la dichiarazione del dissesto (che viene deliberata su proposta della Giunta e su relazione dei revisori dei conti che attestano le condizioni del dissesto), art. 246 Tuel. “Ove sia ritenuta sussistente l'ipotesi di dissesto l'organo regionale di controllo assegna al consiglio, con lettera notificata ai singoli consiglieri, un termine, non superiore a venti giorni, per la deliberazione del dissesto. Decorso infruttuosamente tale termine l'organo regionale di controllo nomina un commissario ad acta per la deliberazione dello stato di dissesto. Del provvedimento sostitutivo e' data comunicazione al prefetto che inizia la procedura per lo scioglimento del consiglio dell'ente, ai sensi dell’art. 141”. Il Consiglio comunale quindi,di fronte all’ipotesi di dissesto può scegliere: o vota o non vota il dissesto. Paradossalmente non è affatto vero che il Consiglio va a casa se vota il dissesto, ma l’esatto contrario (e neanche, come dimostra il caso Milazzo,come vedremo). Se infatti il Consiglio comunale approva la delibera di dissesto, questa viene notificata al Ministero ed alla Corte dei Conti e l’iter prosegue con la nomina,da parte del governo di tre commissari che gestiranno quella che potremmo definire la “bad company”, la mole di guai che ha portato al default. Giunta e consiglio quindi resteranno saldamente al loro posto. L’unica possibilità che, votando il dissesto il Consiglio comunale debba dire addio alla poltrona è solo se Accorinti si dimette, ma questa sembra una leggenda ancor più metropolitana della precedente. Se invece,per tornare al destino dell’Aula i consiglieri si rifiutano di votare il dissesto, è la Corte dei Conti che interviene presso il prefetto per la nomina di un commissario ad acta che provvederà ad approvare la delibera di default. E’ quindi “non votando” il dissesto ed innescando l’arrivo del commissario che il Consiglio torna a casa e si torna al voto. Ma anche in questo caso non è affatto scontato,perché ad esempio a Milazzo il consiglio comunale non ha votato il default, ed è stato sciolto ex art.141. L’Aula ha però fatto ricorso al Tar, che ha confermato lo scioglimento,e poi al Cga che ha riportato in sella i consiglieri. Nel frattempo Milazzo è andata in default e ne è uscita in due anni, e tutto questo con giunta e consiglieri regolarmente eletti negli anni precedenti. Ne consegue che quella dell’addio alle poltrone in caso di default è appunto una leggenda metropolitana, a meno che appunto la giunta non si dimetta, ma questo potrebbe avvenire non limitatamente al default ed è ipotesi assai remota in tutti i casi.
LEGGENDA METROPOLITANA n°2- I responsabili del default a vario titolo sono incandidabili.
Anche questo non è un fatto scontato, né immediato,né automatico, così come non è allo stesso modo né scontato, né automatico che chi si è opposto al dissesto resta fuori da qualsiasi procedimento di responsabilità amministrativa. Quando parliamo di “responsabili del default a vario titolo” indichiamo anche quanti possono essere ritenuti responsabili per il solo fatto di “aver fatto atti che allontanano o dissimulano il dissesto” (è proprio questo uno dei punti contestati agli ex amministratori della giunta Buzzanca nell’inchiesta in corso), e quindi anche gli attuali inquilini di Palazzo Zanca, giunta e Aula. Va da sé che c’è una profonda differenza tra “incandidabilità” sotto il profilo tecnico-giuridico e “incandidabilità” sotto il profilo dell’immagine, ma questo non riguarda il dissesto, quanto piuttosto il rapporto con l’elettorato e l’opinione pubblica. La prima premessa da fare è che per essere incandidabili non basta né il dissesto né l’avvio di un procedimento di responsabilità amministrativa da parte della Corte dei Conti. Per esserlo occorre che sia dimostrato il dolo e la colpa grave. Deve cioè scattare un’indagine da parte della Procura (alla quale la Corte dei Conti trasmette le carte relative al default) e deve essere dimostrata appunto la colpa, ovverossia l’elemento soggettivo costituito dal dolo nelle sue varie accezioni. Quindi l’incandidabilità non è scontata, né immediata, né automatica, né infine contestuale alla dichiarazione di default. Per quello che ne sappiamo potrebbero passare altri tre secoli. Chi teme quindi che dichiarando il dissesto non potrà più candidarsi o che con questo gesto “inguaia” qualcuno, si sbaglia di grosso. Nel mezzo ci si mette anche la legge Severino che sull’incandidabilità ha messo una serie di paletti. La legge Severino norma sia le cause d’incandidabilità per le elezioni di Camera e Senato che per elezioni regionali e amministrative. Non possono essere candidati a Camera e Senato coloro che hanno riportato condanne definitive a pene superiori a due anni di reclusione per i delitti (tentati o consumati) ex art. 51 ed indica poi anche una serie di reati che vanno dall’associazione a delinquere di stampo mafioso, al terrorismo, alla riduzione in schiavitù, traffico di stupefacenti, violenza sessuale etc. Ovviamente ci sono anche i reati connessi all’amministrazione della cosa pubblica, come l’abuso d’ufficio,il peculato, la corruzione. Passando alle cause d’incandidabilità alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali la Severino indica quanti sono stati condannati in via definitiva per associazione mafiosa, traffico di stupefacenti,traffico d’armi, e per reati previsti dall’art. 51 del codice di procedura penale. Nell’elenco ci sono tutti i reati connessi con l’amministrazione pubblica: “ c) coloro che abbiano riportato condanna definitiva per i delitti consumati o tentati per quanto concerne le sole cariche di cui all'articolo 7 previsti dagli articoli 314, 316, 316bis, 316ter, 317, 318, 319, 319ter, 319quater, comma 1, 320, 321, 322, 322bis, 323, 325, 326, 331, comma 2, 334, 346bis del codice penale; coloro che siano stati condannati con sentenza definitiva alla pena della reclusione complessivamente superiore a sei mesi per uno o più delitti commessi con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio diversi da quelli indicati alla lettera c)”. Tra questi risulta anche quell’art. 323 che viene contestato nei casi in cui si procede per accertare la responsabilità amministrativa nei casi di default, sia con provvedimenti volti a causarlo che a dissimularlo. La Severino si applica non solo per l’incandidabilità alle elezioni regionali, comunali e circoscrizionali, ma prevede anche che non possano essere nominati assessori,presidenti e componenti del Cda di consorzi, aziende speciali, istituzioni e partecipate.
L’incandidabilità infine può essere successiva all’elezione, qualora le condizioni si completino dopo l’avvenuta elezione. Facciamo un esempio: l’assessore X coinvolto in un’inchiesta scaturita dall’accertamento della responsabilità amministrativa,viene condannato in via definitiva per uno dei reati previsti dalla Severino e nel frattempo è stato rieletto e magari è anche sindaco o assessore o consigliere. In questi casi scatta la decadenza perché l’incandidabilità è stata conclamata successivamente all’elezione. E’ evidente come stiamo parlando di ipotesi remote nel tempo e nelle condizioni,perché si deve accertare il dolo e si deve arrivare alla condanna definitiva. Anche questa quindi è una leggenda metropolitana, sebbene, ci sia da riflettere sul fatto che molto spesso,al di là di un’incandidabilità giuridica, ci siano i presupposti per un’incandidabilità etica… ma questo è un altro discorso.
Ma le leggende metropolitane sul dissesto non finiscono qui, perché poi c’è la mamma di tutte le leggende metropolitane, quella che vede nel default la catastrofe e nel Piano di riequilibrio il giardino dell’Eden. Nei prossimi articoli affiancheremo le conseguenze per i cittadini nel caso di dissesto e del Piano di riequilibrio in modo da scoprire sia se ci sono differenze che analogie e in che termini e in che tempi.
Rosaria Brancato