I sette pilastri della meditazione consapevole: l'accettazione

I sette pilastri della meditazione consapevole: l’accettazione

I sette pilastri della meditazione consapevole: l’accettazione

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lunedì 28 Gennaio 2013 - 09:28

Accettando le nostre difficoltà, le abbiamo usate come strumento per migliorare, non sono più una diga che blocca persino le risorse che già abbiamo. Chiedi alla psicologa: invia una mail all’indirizzo psicologica@tempostretto.it.

Parlando della pazienza, qualche settimana fa, scrissi: “Le mete stanno nel futuro, sono utili, come le stelle che orientano la rotta in mare aperto: il navigante fa in modo di seguire la loro direzione, ma non è suo scopo toccarle”. Le mete di cui stiamo parlando adesso, ovviamente, non sono luoghi geografici, ma obiettivi che vogliamo raggiungere, cambiamenti che vogliamo si verifichino nella nostra vita. Approcciandoci alla meditazione, ma anche agendo nella nostra vita quotidiana, tutti perseguiamo qualche fine. C’è chi vuole essere più sereno, meno stressato, altri vorrebbero essere più puntuali, altri più coraggiosi … fermiamo qualche minuto la nostra lettura e chiediamoci quali sono gli scopi che muovono il nostro agire. Li abbiamo individuati? Bene. Adesso facciamo una delle cose più efficaci che possiamo fare affinché possiamo raggiungerli: mettiamoli da parte. Perché? Il motivo è semplice: torniamo agli scopi che abbiamo individuato essere alla base delle nostre azioni, noteremo che praticamente sempre implicano una valutazione di noi che dovremmo essere “più” o “meno” di quello che già siamo. Così come siamo non andiamo bene. Questa valutazione ci trascina verso il futuro e ci fa adottare un atteggiamento giudicante verso di noi, ci impedisce di osservare con serena consapevolezza quello che accade dentro ed intorno a noi. Ci distoglie dal fare bene, con attenzione, quello che stiamo facendo, si tratti di meditazione o di qualunque altra attività. Se pensiamo di iniziare ad apprezzarci il giorno in cui raggiungeremo i nostri obiettivi, presteremo molta poca attenzione ai nostri bisogni attuali, a ciò che ci serve perché possiamo raggiungere certi scopi. Ciò che dobbiamo fare è una cosa sola: accettare. Noi e la realtà. Accettare non vuol dire rinunciare al cambiamento, non vuol dire ritenere di dover smettere di migliorare noi stessi e la realtà che ci circonda, al contrario. Accettare vuol dire osservare la realtà per come si presenta ai nostri occhi, così da essere consapevoli del suo divenire, ed essere così capaci di meglio agire per attuare il cambiamento. Ci sono delle cose che possono e devono essere cambiate ed altre che invece non possiamo modificare perché vanno oltre il nostro arbitrio. In entrambi i casi, la scelta più utile è accettare la realtà per quella che è, senza disperdere energie in speranze o disperazioni, bensì canalizzandole nel presente, poiché il presente è l’unico tempo in cui, passo dopo passo, è possibile il cambiamento.
Facciamo un esempio: siamo degli studenti, stiamo studiando una materia che ci riesce difficile. Possiamo scegliere di iniziare a biasimarci perché siamo degli asini, perché dovremmo essere più assidui nello studio e via dicendo. Ci sentiamo sempre più incapaci, entriamo in un circolo di autoinvalidazione che ci rende lo studio più pesante e può addirittura rendercelo impossibile al punto da condurci alla bocciatura. Abbiamo, per fortuna, anche una seconda via: possiamo prendere atto delle nostre difficoltà, accettarle invece di biasimarci e da loro partire per capire quali sono e cosa possiamo fare per superarle. Accettando le nostre difficoltà, le abbiamo usate come strumento per migliorare, non sono più una diga che blocca persino le risorse che già abbiamo. Come andrà l’esame se la prendiamo così? Meglio o peggio che nella prima ipotesi?
Abbiamo appena visto come l’accettazione faciliti il cambiamento. Accettazione non è sinonimo di rassegnazione, ma suo contrario. Se ci rassegniamo siamo vittime inermi. Se accettiamo, ci poniamo in posizione attiva, ci mettiamo in grado di fare il meglio che possiamo con quello che abbiamo. E questo è quello che, alla fine, fa la differenza.

“Psicologica” è curata da Francesca Giordano, psicologa, laureata presso l’Università degli Studi di Torino, specializzanda presso la Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Roma (SPC), Vicepresidente A.p.s. Psyché, “mamma di giorno” presso il nido famiglia Ohana.
Avvertenza: questa rubrica ha come fine quello di favorire la riflessione su temi di natura psicologica. Le informazioni e le risposte fornite dall’esperta hanno carattere generale e non sono da intendersi come sostitutive di regolare consulenza professionale. Le mail saranno protette dal più stretto riserbo e quelle pubblicate, previo esplicito consenso del lettore, saranno modificate in modo da tutelarne la privacy.

3 commenti

  1. Come ad esempio i nostri politici…. Dobbiamo accettarli,ma a pezzi piccoli piccoli!

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  2. NOOOOO, mi dispiace, i ns cosidetti politici vanno proprio cambiati in toto, nn accettati ! Infatti abbiamo già visto come ci hanno ridotti. Oppure vogliamo continuare così? Forse ancora nn è chiaro che saremo noi a pagare il conto, attraverso un mare di tasse, dei loro loschi affari personali?

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  3. Confesso che anche a me, a volte, viene la tentazione di “accettare” i nostri politici in un senso molto vicino a quello suggerito dal nostro Epimeteo. L’istinto, altrettanto velocemente, mi trascina verso l’idea di Flavia: eliminiamoli dalla scena politica e sostituiamoli con altri. Subito, che l’affare è urgente! Ogni classe dirigente è espressione dei valori dominanti della collettività che rappresenta. Accettare ciò vuol dire riconoscere che bisogna partire dal cambiare i valori che ognuno di noi, giorno per giorno, condivide attivamente o avalla con l’indifferenza. Dobbiamo accettare la nostra responsabilità in questo e non delegarla al politico che votiamo. Ma come dovremmo ridisegnare la scena politica e i valori che la ispirano perché questi “altri” non siano solo nuovi, ma anche migliori? Ecco allora che bisogna accettare, non nel senso suggerito dal nostro amico, né nel senso che classicamente si dà a questa parola: accettare non vuol dire rassegnarsi, tutt’altro. L’accettazione consapevole significa che mettiamo da parte illusioni e delusioni, guardiamo la realtà (la nostra situazione politica) per quella che è, nella sua complessità, ne cogliamo i punti di forza e quelli di debolezza, le varie responsabilità (della classe dirigente e nostre) e solo in un secondo tempo, su questa base e non sulla spinta della rabbia o del malcontento, proponiamo il cambiamento. Solo allora sarà un cambiamento effettivo e non semplicemente un avvicendarsi di volti un po’ meno noti. Accettare in questo caso significa, secondo me, riconoscere che il cambiamento deve partire da noi. Esprimere una classe politica sana è il punto di arrivo di un miglioramento sociale, non quello di partenza.

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