Firmiamo il Patto di San Valentino tra quellichelamanodaqui e quellichelamanodalontano

Domenica scorsa mi è accaduta una cosa che voglio condividere con i lettori di Tempostretto. Come spesso faccio la domenica compro le mitiche “pesche” dalla pasticceria Foti prima di andare a pranzo dai miei genitori. E’ una pasticceria sul Viale San Martino, quindi molto centrale. Stavo uscendo con la mia overdose di calorie e felicità quando ho visto Biancaneve. E ho capito che era Carnevale. In tutta la strada era l’unica bambina vestita in maschera, non c’erano principesse, gatti con gli stivali, orsetti, non c’era il tappeto di coriandoli per terra, stelle filanti. Se non avessi incontrato quel mezzo metro di allegria colorata mano nella mano della mamma, non mi sarei accorta che era Carnevale. Magari la festa in grande stile sarà stata martedì, ma nel viale San Martino, domenica di Carnevale, per terra c’erano più foglie morte che coriandoli e per strada una sola Biancaneve. Mi è venuta una tristezza infinita per la mia città e con quel pacco di mitiche pesche ipercaloriche in mano ho iniziato a piangere. Nel mio cuore ho chiesto scusa a mio figlio, perché l’ho messo al mondo in una città che muore ed è grigia anche quando dovrebbe essere arcobaleno. Non so come sia accaduto che anche il Carnevale si è spento. Ricordo anni ed anni di coriandoli, carri di cartapesta, mascherine. Abito qui da 22 anni e il viale San Martino è stato sempre un lungo tappeto di coriandoli e m’arrabbiavo perché non riuscivo a tornare a casa senza avere il cappotto imbrattato di schiuma da barba. In 22 anni mi è sfilata davanti l’evoluzione del costume, siamo passati dai Principi azzurri ai Pokemon, da Zorro ad Harry Potter, dalla sirenetta Ariel alla principessa Elsa di Frozen. Non si respira Carnevale, perché si sono spenti i colori. Mi sento colpevole in quota parte per quello scenario spettrale, perché non ho fatto abbastanza, perché mi sono distratta quando pensavo che bastasse la speranza senza sapere che la speranza senza l’azione è come una macchina senza benzina. Mi sento colpevole perché non mi sono arrabbiata quando dovevo e perché troppo spesso ho pensato che non toccava a me ma ad altri.

Nel 2015 hanno chiuso 1015 esercizi, la media è di quasi 3 al giorno. Nell’arco di tempo tra il buongiorno e la buonanotte 3 saracinesche si sono abbassate definitivamente ogni giorno per un anno. E in quelle 24 ore intere famiglie sono finite nel baratro della paura del domani e nel dolore del presente.

Mentre scrivo le conseguenze della mancanza del bilancio di previsione 2015 (stiamo parlando di un ritardo di 1 anno) le paghiamo con la paralisi del Palazzo. Stipendi a rischio, raccolta rifiuti e servizi sociali a rischio, scuole tra gelo e mensa sospesa, chiuse due isole ecologiche, interrotta la scerbatura. La mancanza del bilancio sta causando drammi a catena in un contesto già devastato. Il gioco dello scaricabarile non regge più. Il vicesindaco Signorino non ha rispettato l’ultimatum dato dal commissario per la presentazione del bilancio. Ha consegnato ai revisori dei conti la documentazione, per di più parziale, relativa all’accertamento dei residui attivi e passivi. E ha decretato che questa parziale consegna basta ad autosospendere l’ultimatum. Non si può giocare con le parole. Il bilancio previsionale 2015 non è pronto. La paralisi del Palazzo è la prova conclamata del fallimento della politica economica di questa giunta. Con umiltà bisognerebbero farsi le dovute riflessioni. Perché questo fallimento, caro Signorino, lo stiamo pagando noi.

Poi però, domenica pomeriggio ho letto la nota che ha mandato Sergio Di Prima per il Dibattito del lunedì. Era una lettera d’amore per una terra che vive da lontano. Non è vero che siamo divisi tra quellicheceranoprima e quellichecisonoadesso. Non è così. Amiamo tutti allo stesso modo Messina, la differenza è tra quellichelamanodaqui e quellichelamanodalontano. Ho cercato di vederla con gli occhi di Sergio Di Prima, che sta settimane intere a Londra, ma nel cuore ha lo scorcio che si vede quando aspetti la Metromare e ti viene un groppo alla gola perché non vorresti proprio lasciarla questa terra ma se ti affama e ti nega il presente e il futuro che fai? Oppure Giuseppe Gazzara(che leggerete nel Dibattito del lunedì di domani) che ha resistito fino all’ultimo prima di dire addio sperando che sia un arrivederci. Non c’è differenza tra noi e loro, l’amiamo allo stesso modo. Sergio Di Prima scrive: “Quando torno in città dopo mesi questo incanto mi ammalia, e per riaccorgermi delle brutture occorrono almeno quattro-cinque giorni”. Solo l’amore non ti fa vedere i rifiuti, la trasandatezza, le buche, il declino. L’amiamo allo stesso modo questa disgraziata città, loro, quellichelamanodalontano con l’amarezza di vedere come potrebbe essere e non è, e noi, quellichelamanodaqui con la rabbia di sapere che esiste un altro modo di essere città. Più diventiamo una città di anziani, pieni di rimpianti per quello che poteva essere e non è stato e di rimorsi per quello che potevamo fare e non abbiamo fatto, e più si approfondisce il solco tra questi due modi di amare. Un giorno non parleremo più la stessa lingua e sarà troppo tardi. Chi va via è come quell’innamorato deluso che sbatte la porta ma aspetta che l’altro lo richiami, non vede l’ora e guarda il telefono aspettando un sms, un whatsapp, un cenno. Chi resta fa altrettanto. Guarda la strada e l’uscio e aspetta di rivedere la figura di qualcuno che torna. Ogni volta che si spegne un Carnevale, si abbassa una saracinesca, o una madre riempie la valigia di un figlio, è un giorno in meno che basterà a Sergio Di Prima per accorgersi delle brutture. Finchè un giorno non tornerà più.

Nel giorno di San Valentino dovremmo siglare un Patto tra quellichelamanodaqui e quellichelamanodalontano. Uniamo nostalgia e rabbia, amarezza e speranza e facciamo qualcosa d’incosciente. Mandiamo quel whatsapp a chi è andato via, facciamolo riavvicinare all’uscio così da poterlo vedere lungo la strada del rientro. Proviamo ad ascoltare cosa ha da dirci quel coro che viene da fuori e a raccontare, noi che siamo rimasti, cosa vogliamo, ammettendo i nostri errori. Mettiamo insieme tutto, fallimenti e sogni. Proviamo a rialzarci e ad ammettere che cadremo ancora e ancora ci rialzeremo. Sergio Di Prima parlava di semi piantati nel 2013. Quei semi rischiano di appassire se non avremo la forza di guardarci in faccia, dire la verità e riprovarci ancora. E ancora. E ancora. Con umiltà. Ci vuole coraggio ad essere umili e ad ammettere la verità. Ma lo dobbiamo a Biancaneve e ai bimbi come lei.

Per far sì che un giorno ci saranno solo quellichelamano e basta.

Rosaria Brancato