Sgominato clan mafioso di Camaro, il boss coordinava dal carcere: in manette dodici persone

Un clan mafioso ben organizzato, radicato su tutta la zona di Camaro, il cui fulcro era costituito da un’intera famiglia, padre, figlio, moglie e cognati. Tenevano sotto scacco tutti i commercianti della zona, creavano alleanze con altri clan mafiosi, avanzavano richieste di denaro o assunzioni a tappeto, recapitavano biglietti minatori, minacciavano quelli che non volevano pagare il pizzo e pretendevano gratuitamente merce ed alimenti.
Si conclude con 12 arresti la vastissima operazione “Richiesta” in cui determinanti sono risultate le collaborazioni dell’ex boss Gaetano Barbera e di Massimo Burrascano, utilizzati per la prima volta a supporto di un’ordinanza penale.
Finiscono in manette: Santi Ferrante (59enne già detenuto presso la Casa Circondariale di Sulmona), Antonino Genovese (59enne messinese), Maria Genovese (53enne messinese), Raffaele Genovese (48enne messinese, sottoposto al regime di semilibertà presso il carcere di Gazzi), Francesco Di Biase (39enne messinese), Sebastiano Freni (32enne messinese), Enrico Oliveri (25enne messinese), Giovanni Lanza (32enne messinese), Salvatore Triolo (37enne di Rosarno, Reggio Calabria), Vittorio Di Pietro (36enne messinese, già agli arresti domiciliari nel comune di Caprie), Francesco La Rosa (60enne messinese, già detenuto presso il carcere di Gazzi), Gianfranco La Rosa (34enne messinese). Inoltre è stata eseguita la misura di obbligo di dimora per Salvatore Morabito, 43enne messinese.

L’indagine ha preso avvio nel febbraio nel 2012 a seguito dell’arresto di Vittorio Di Pietro per il reato di estorsione a danno di due commercianti del quartiere di Camaro. Da qui, la scoperta di una fitta rete mafiosa, un agguerrito clan coordinato in primis proprio da Santo Ferrante che, dal carcere duro di Sulmona, muoveva le fila di tutta l’organizzazione. Personaggio di spicco della criminalità organizzata di Camaro, Ferrante era già stato condannato per omicidio, estorsione, rapina, usura, associazione a delinquere di tipo mafioso e finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Dalle numerose intercettazioni dei colloqui coi familiari, è emerso che, sebbene in carcere, il super boss continuava a gestire e coordinare tutte le attività illecite.
Ma non era il solo che, da dietro le sbarre, muoveva le fila del clan. Altro personaggio chiave, infatti, è risultato essere anche il semidetenuto Raffaele Genovese che, insieme al fratello Antonino ed al cognato Francesco La Rosa, costituiva il vero nucleo storico ed operativo del gruppo.
Reduci di una lunga militanza delinquenziale, infatti, i tre erano ben conosciuti nel territorio ed erano quindi in grado di far asservire facilmente le loro vittime con intimidazioni e minacce. In un’occasione, i membri dell’associazione erano arrivati anche ad incendiare l’escavatore di un’impresa che si rifiutava di pagare il pizzo.
La famiglia La Rosa era interamente coinvolta. Ruolo determinante avevano il figlio Gianfranco e la moglie Maria Genovese.
Le indagini, infatti, hanno appurato come la donna fungesse da messaggera facendo transitare i messaggi del marito, quando si trovava in carcere, verso l’esterno.
Ma non solo. La Genovese dettava disposizioni, riscuoteva proventi illeciti e stabiliva le ripartizioni.
Poi vi erano gli altri affiliati che eseguivano alla lettere le direttive impartite dai superiori gerarchici, in primis Ferrante e Raffaele Genovese dal carcere, e poi la famiglia La Rosa, partecipando all’attività estorsiva, anche con danneggiamenti e intimidazioni.
Sotto la lente degli osservatori diverse attività commerciali della zona tra cui anche l’impianto sportivo dell’ex calciatore del Messina Carmine Coppola, anche lui vittima del sistema mafioso.
Nel corso delle perquisizioni domiciliari, inoltre, è stata rinvenuta una pistola 7.65 con relativo caricatore e 15 proiettili, nonché un caricatore per pistola 9×21 munito di 6 proiettili dello stesso calibro. Il tutto nell’appartamento di Francesco Di Biase.
Si chiude così un cerchio che, a detta degli inquirenti, non è che l’inizio per ulteriori attività di indagine e contrasto alla criminalità mafiosa del territorio messinese.
Veronica Crocitti