Sogno di una notte di fine estate: Messina che diventa una città per restare

Ho scoperto che sono in aumento i matrimoni in agosto e mi sono chiesta perché. Esclusa da subito l’ipotesi che gli sposini detestino a tal punto parenti e amici da volerli sterminare costringendoli al supplizio di ore ed ore sotto il sole cocente, tasso di umidità al 100%, vestiti di tutto punto in Chiesa o al ristorante sognando la spiaggia di Torre Faro e una coca cola, mi sono chiesta perché non valga più il saggio proverbio “ad agosto non si sposa non si parte né si dà inizio all’arte”. E’ chiaro che la mia non è un’indagine sociologica, ma pura curiosità, e le risposte che ho avuto non equivalgono all’Enciclopedia Treccani, ma mi hanno fatta riflettere.

Molti degli sposi d’agosto lo fanno perché: o vivono in altre regioni per lavoro e quindi rientrano per una cerimonia che renda felici i parenti rimasti, oppure, se hanno la fortuna di lavorare qui è l’esercito dei parenti che ha trovato occupazione altrove e solo ad agosto rientrano al “paesello natio”. Entrambe le ipotesi dipendono dal fatto che se vuoi riunire la famiglia oggi a Messina puoi farlo solo ad agosto. Il resto dell’anno è una diaspora in giro per il mondo. Del resto è solo in estate che l’età media di questa città destinata a diventare “un Paese per vecchi” si abbassa notevolmente, con un esercito di figli che rientrano per le vacanze. E a settembre, quando saliranno su treni e aerei vedranno anche i loro fratelli minori seguire la stessa strada.

L’amara verità è che più passa il tempo più Messina diventa una città di passaggio, un’anticamera, una portineria, un luogo dove si transita ma non si resta.

Questo pensiero mi aveva agghiacciato due mesi fa, quando ho visto la terribile immagine di una bara bianca sul porto, all’arrivo dell’ennesima nave carica di migranti. Quella bara avrebbe ospitato un piccolino, un bimbetto morto annegato durante la traversata. Poi ci sono stati i funerali in piazza municipio, ma a me quella bara bianca ha suscitato un pensiero: quel bimbo resterà qui, ma la sua mamma, il suo papà, i fratelli, profughi venuti da chissà quale dolore e diretti verso chissà quale speranza, non potranno mai piangere sulla sua tomba. Già, perché nonostante quello che molti pensano questi profughi non restano a Messina. Noi siamo centro di accoglienza, chi viene qui, dalla Nigeria, Somalia, Eritrea, Siria, se ne va, ha già contatti altrove. Noi siamo solo terra di passaggio, peraltro neanche tanto accogliente. Sono rimasti 25 minori provenienti dall’Africa subsahariana e per motivi burocratici non si è data loro un’accoglienza decente, sono ancora in tendopoli. Se fosse per Clelia Marano li porterebbe tutti a casa sua, ma rischierebbe l’arresto in uno Stato dove la burocrazia fa ferite più profonde di una guerra. I migranti quindi, giunti qui, al massimo restano un mese. Vanno via e di noi a loro non resterà alcun ricordo se non il porto, la tendopoli, la gente che li caccia al semaforo o non li fa entrare nei supermercati. Non toglieranno mai il lavoro ai nostri figli per due motivi: primo perché se ne vanno, secondo, i nostri figli non vogliono fare quello che loro sono disposti a fare, dall’accudire gli anziani, al raccogliere i pomodori. L’unico che resterà, tranne qualche sporadico caso di mediatori culturali, è il corpicino nella bara bianca.

Poi questa cosa non l’ho scritta perché sapevo che avrei suscitato un vespaio di polemiche “e che ci fanno questi qui, e ci rubano il lavoro, e puzzano, e stanno ai semafori, e rubano, e stuprano etc etc”. In realtà è bizzarro, perché tra le notizie di cronaca nera che quotidianamente Veronica Crocitti scrive (e sono un’infinità), stupratori, pedofili, scippatori, rapinatori, sono tutti di nazionalità italiana. Quanto alla puzza, per quella bastano i rifiuti accatastati sotto casa, che fanno tanto “africa nera” e quindi non c’è alcun bisogno di andare ad odorare le persone.

Ma sto divagando, perché il concetto di base è che stiamo diventando un portone, uno di quei posti che uno neanche guarda quando passa perché gli serve solo per arrivare da un punto ad un altro.

Riflettevo questo anche nel vedere le reazioni dei camionisti sul cavalcavia quando Accorinti li fermava per l’ordinanza anti-tir. Quel che ha fatto infuriare l’Aias e i camionisti è l’aver scoperto che Messina non è una striscia di strada, uno zerbino che serve per arrivare all’autostrada, ma è una città, con persone, una storia, una cultura, un’anima, un paesaggio, beni architettonici-culturali-artistici. E abbiamo persino un sindaco che una mattina si alza per difendere il nostro diritto alla salute. Poi tutti hanno criticato il modo in cui Accorinti l’ha fatto, ma almeno l’ha fatto ed è questo che ha letteralmente sconvolto i camionisti: scoprire che non siamo un tappetino, ma una città pulsante con diritti e doveri, con vite umane da difendere. Io l’ho vista come una cosa simbolica, quella frase “lasciatemi passare, devo andare”, detta dagli autotrasportatori infastiditi, un po’ come se Messina fosse diventata un casello. Messina non è solo l’arancino che l’autotrasportatore o il ragazzo o l’emigrante che torna mangiano sulla nave. Messina è dentro la città. Nessuno guarda mai il portiere quando entra in un palazzo, noi stiamo diventando così, come quel portiere. Siamo persino scorbutici come quei portieri che hanno lavorato tutta la vita e ormai per loro è indifferente se entra Ali Baba e i 40 ladroni o Monica Bellucci nuda, neanche ci fanno caso e automaticamente indicano l’ascensore. Ma quel che è peggio è che ci stiamo abituando talmente tanto a questa condizione che neanche proviamo a rendere la portineria elegante, pulita, dignitosa.

Come sarebbe bello se un giorno dovessimo invece operare per fare di Messina una città per restare, se impegnassimo le nostre energie non per rendere più agevole il passaggio ai tir, ma se usassimo le nostre risorse per far restare la gente. Persino i turisti non restano. Saltano sui pullman e vanno Taormina, Tindari, Giardini. Come sarebbe bello se un giorno tutti i matrimoni (e anche le Unioni civili con tanto di registro) si potessero celebrare a gennaio o a settembre, quando vogliono gli sposi perché l’intera famiglia è accanto a loro sempre. Come sarebbe bello se anche gli extracomunitari restassero per contribuire ad una città europea ed accogliente. Ci sono interi paesini in Sicilia, rimasti vuoti a causa delle varie ondate di emigrazione, ripopolati grazie ai migranti. I bimbi vanno a scuola e i genitori lavorano e gli anziani rimasti non li scambiano per l’uomo nero o lo stupratore di turno. Hanno fatto rivivere Paesi morti.

Ma tanto è inutile pensarci, perché sta finendo agosto e sto vedendo già i figli delle mie amiche salutarli per partire e andare a Roma, Milano, Torino, e i miei amici con mogli tedesche, francesi, bergamasche tornare a casa loro. E io resto qui, in una città di transito, a guardare passare i camion diretti all’autostrada, a guardare il vai e vieni dei profughi e a invecchiare lamentandomi della spazzatura e dell’acqua che non c’è.

Rosaria Brancato