Dedico la mia rubrica domenicale a mia sorella Omayma, uccisa a bastonate dal marito

Questa rubrica oggi è un posto occupato. Oggi non è la mia rubrica,mi scuseranno i lettori se non scriverò di malapolitica, di antimafia, della giunta Crocetta, di Renzi o di Accorinti. Anche la foto non è la mia. Questa rubrica oggi la dedico a mia sorella Omayma, è lo spazio suo, quel poco che posso darle perché lei non avrà più nessuno spazio per la sua vita. Vorrei la scrivesse lei, io non saprei mai usare le sue parole. Sono fortunata, ho un lavoro che mi rende felice, vesto come voglio, vivo nel luogo che ho scelto, faccio la vita che ho scelto, ho i sogni che ho scelto, non devo contrattare nulla di tutto questo con nessuno se non con me stessa. Ma in qualche modo vorrei che fosse lei a scrivere questa rubrica, mia sorella Omayma. Anzi, mia nonna, perché nella battaglia che l’ha portata alla morte, mi ha ricordato le lotte che le nostre bisnonne, nonne e zie hanno fatto per la nostra emancipazione, perché io fossi libera oggi di essere quella che sono, di lavorare, votare, guidare, truccarmi, tagliarmi i capelli, mettere il topless, divorziare, uscire la sera, fare carriera, decidere con la mia testa, sbagliare, divertirmi, scegliere chi amare. Eppure questo femminicidio così uguale a tutti gli altri è stato vissuto come un femminicidio di serie B. Ringrazio Maria Andaloro che ha subito lanciato il grido di dolore con posto occupato, l’assessore Patrizia Panarello, che ha subito parlato di lutto “per la morte di una di noi” e che con l’assessore Nina Santisi hanno organizzato, insieme alle associazioni, una fiaccolata. Ma la sua morte non è stata vissuta come quella di una di noi. Se mio marito mi avesse uccisa a bastonate una sera, di rientro da uno dei tanti consigli comunali che finiscono alle due di notte, se ne sarebbe parlato, con rabbia, sdegno, per giorni e giorni. Se un signor X avesse ucciso a bastonate una signora X, messinese, casalinga, impiegata, professoressa, barista, se ne sarebbe parlato per giorni. Invece Omayma, tunisina di 33 anni, mediatrice culturale che ha trascorso l’ultima giornata della sua vita al fianco degli operatori che accolgono altri migranti, Omayma, sposa e madre di 4 bambine (di 12, 8, 5 e 3 anni), uccisa a colpi di bastone come ai tempi delle caverne, non è stata vista davvero come una delle nostre figlie massacrate. E’ stato un omicidio finito presto nell’oblio, è stato come aver dato per scontato che, poiché era figlia di “quella cultura” di “quel mondo”, anche la sua morte in un certo senso ne faceva parte. Se ci siamo “assuefatti all’orrore” figuriamoci quando a morire è una tunisina uccisa da un uomo che se fosse condannato nella sua terra avrebbe persino le attenuanti del “delitto passionale, delitto d’onore”. Questo femminicidio l’abbiamo vissuto come un femminicidio di serie B. Eppure lei è stata uccisa per il suo essere donna e per il suo volerlo essere pienamente, consapevolmente e fino in fondo. E’ stata uccisa perché la sua vita era qui, e non voleva tornare in Tunisia. Qui voleva continuare a vivere e far crescere le sue bambine. E’ stata uccisa perché si stava battendo per affermare i suoi diritti di madre e donna libera. E’ una vittima in piena guerra, ed il campo di battaglia è lo stesso delle nostre nonne e lo stesso nostro. E’ stata uccisa mentre difendeva con le unghie e con i denti le conquiste delle donne. Penso con dolore alle sue bambine. Lei ha perso la vita per un sogno, vederle crescere qui. Sarà doloroso il compito del Tribunale dei minori e dei servizi sociali per riuscire a dare il giusto futuro a queste bimbe, perché devono stare con i familiari, ed è giusto così, ma se quel che resta della loro culla è in Tunisia portarle laggiù non equivarrebbe a negare quello per cui la madre è morta? Non si potrebbe in qualche modo conciliare la necessità di lasciarle in famiglia con quella di farle crescere dove la loro madre voleva? Questo ad Omayma lo dobbiamo. Così come dobbiamo assicurare una giustizia giusta ed evitare che il suo carnefice torni magari in Tunisia dove il reato avrebbe ben altre condanne e magari, finirebbe con il vedersi riassegnate un giorno le figlie.

Ho fatto caso a quanto poco ci siamo interessati a questo femminicidio quando mercoledì scorso, in consiglio comunale, presenti consiglieri, sindaco e assessori, dopo 6 ore di dibattito Nino Carreri ha fatto il suo intervento dal posto occupato dell’Aula ed ha detto: “Non a caso parlo da qui. Mi sarei aspettato dai presenti un pensiero, un minuto di silenzio, lo faccio io, in ricordo di Omayma uccisa dal marito”. Il silenzio è calato e tutti lo hanno guardato, compresi noi giornalisti. L’interprete è stata uccisa nella notte tra il 3 ed il 4 settembre, eppure mercoledì 9, era già sfuggito di mente. Lo sdegno “a caldo” era già finito. Ma se fosse stata uccisa una qualsiasi messinese, non sarebbe andata così. Anche noi giornalisti non abbiamo vissuto questo femminicidio alla stregua degli altri, con la stessa tensione morale, la stessa rabbia. Per questo vorrei riuscire a far scrivere ad Omayma questa rubrica, ma è impossibile. Non potrò mai avere la sua voce perché le nostre vite sono state profondamente diverse. Non ho dovuto abbandonare la mia terra, non ho partorito la mia prima figlia a 21 anni e le altre tre a seguire, non so quanto amore ci sia stato dietro il suo matrimonio, quante lacrime ha nascosto dietro 4 mura, quante amarezze abbia vissuto in una città che non era la sua, con un uomo accanto troppe volte disoccupato, quante umiliazioni abbia vissuto nella sua condizione di “migrante” che cerca con dignità di ricostruire la sua vita in una comunità ostile anche nel guardarla perché indossa il velo. Non so quanti sacrifici le sia costato lavorare e quanto orgoglio infine le gonfiasse il cuore quando,da mediatrice ha realizzato sé stessa dando supporto agli sbarchi e portando conforto ad altre donne e uomini migranti. Però io so, che da donna, mentre orgogliosa e appassionata prestava servizio per ore ed ore non ha mai smesso di pensare alle sue figlie e so, che da donna, rientrando non si è mai lamentata di dover lavorare anche in casa, so che ha nascosto la stanchezza con i sorrisi, il sudore con i baci, la delusione con una ninna nanna, le umiliazioni subite con i sogni. So, da donna, che c’è stato un momento in cui, mentre al Molo Marconi ha iniziato a sentirsi utile e realizzata, è scattata una piccola felicità che le ha fatto sognare per le sue figlie passi meno amari di quelli percorsi da lei.

Forse Omayma avrebbe scritto questo: “So che pensate che sono sporca, vedo da come mi guardate che provate pena per me perché indosso il velo e mi considerate diversa. So che non vi piaceva che le mie figlie giocassero con le vostre. Sono come le filippine, le srilankesi,le indiane, le marocchine che puliscono le vostre case, che badano ai vostri anziani, che accudiscono i vostri malati. Ci tenete a distanza, temete che i nostri mariti e figli vi derubino. Non conoscete le nostre storie, le nostre speranze. Ma i nostri sogni sono gli stessi, lottiamo per la stessa libertà di vivere e per dare alle nostre figlie un’opportunità in più. Ci faremmo ammazzare per questo”. Omayma si è fatta ammazzare per essere una nostra sorella. Ha ragione la Panarello quando scrive “una di noi”. Ci ha unito la stessa battaglia e se avesse voce oggi forse direbbe “grazie” a questa terra ostile che le ha comunque insegnato che si può iniziare a volare, a questa città amara che le ha fatto vedere uno spiraglio di luce. Se avesse voce ci chiederebbe di lottare per le sue figlie, come ha fatto lei, fino all’ultimo attimo della sua vita.

Rosaria Brancato