Il momento magico dell’Art Attack: questo l’ho fatto io

“Una volta mi alzavo alle cinque del mattino per andare a lavorare, mi portavo il panino, come ha fatto mio padre per tutta la vita. Adesso mi alzo molto prima, perché non riesco più a dormire”.

A parlare è un operaio della ex Birra Messina, poi diventata per un incidente della sorte ex Birra Triscele, racconta come è cambiata la sua vita da quando ha smesso di lavorare, così, da un giorno all’altro. Si alzava all’alba, adesso si alza ancora prima, perché non dorme più. Ma in fondo anche quel non dormire non è un problema, perché quando non lavori non ha più senso il riposo, le ore sono tutte uguali così come i giorni e non passano mai. Il problema non è il fatto che cerca lavoro, ma che “NON LAVORA”. A mancare sono i riti, i gesti quotidiani sempre uguali di chi lavora, la sveglia che suona sempre alla stessa ora, e quando non suona capisci che è festa, il caffè, lo sguardo alla finestra per capire che tempo farà, la fila al semaforo o alla fermata del tram, i volti dei colleghi quando arrivi. Improvvisamente quella routine che dava un senso alle tue giornate sparisce, ciò che ti faceva felice di essere un uomo, non c’è più. In quella routine arrivava sempre il momento magico, qualsiasi mestiere si possa fare, dal barista al panettiere, dall’ingegnere all’idraulico, arriva quel “clic” ed è quel momento in cui hai creato qualcosa di tuo, hai aggiustato un’auto che sembrava morta, risolto un problema al capo, hai visto gli sguardi interessati dei tuoi studenti mentre parli, hai preparato una cassata da urlo, hai visto un cliente contento. E’ il momento dell’orgoglio, quello della trasmissione televisiva Art Attack: questo l’ho fatto io. E’ la trasmissione in cui Giovanni Muciaccia (ma il format è diffuso in tutto il mondo) dice: “Non bisogna essere artisti per fare arte” e crea dagli stuzzicadenti un castello, con le briciole di pane una pista da corsa e te lo spiega in modo semplice, così tu lo fai, metti a soqquadro la casa ma poi guardi quella “cosa” e sei felice d’averla fatta, dici la frase magica: “Art Attack, questo l’ho fatto io” e ti convinci che, volendo, potrebbero esporlo al museo. Il lavoro è così. Non importa il mestiere che fai, perché quel momento magico c’è sempre. E’ l’istante in cui capisci perché l’hai scelto, perché hai studiato o hai seguito i consigli di papà o semplicemente hai seguito il corso delle cose. E’ quel momento magico che dà dignità al lavoro. Quando qualcuno taglia la corrente si rompe l’incanto. E’ per questo che non si dorme più, perché non riconosci più il ciclo naturale della vita, il giorno dalla notte.

Conosco bene il tunnel nero degli operai della Birra Messina e di gran parte dei lavoratori messinesi che non hanno più lavoro, so cosa vuol dire non avere ogni mattina la “sveglia” che ti suona dentro e ti dice alzati perché devi andare a fare questo o quest’altro. E’ come se le lancette dell’orologio si fermassero, come se i fogli del calendario fossero fermi sempre alla stessa pagina, anche se la pioggia diventa sole e poi di nuovo pioggia. Il problema non è cercare lavoro, è non lavorare, non produrre più. A Messina lentamente abbiamo smesso di creare. I lavoratori della Birra Messina mi hanno dato un cappellino con la scritta: “Vogliamo produrre la Birra a Messina”, facendo un gioco di parole, ma la parola che mi piace di più è “produrre”. Non intendo produrre mattoni o bulloni, perché si può produrre di tutto, anche questo articolo è un “prodotto”, perché è il frutto del mio impegno quotidiano e non vale di più o di meno di una pizza Margherita o del progetto dello svincolo di San Filippo. Vale quel che “conta per me”, per la gioia che mi ha dato nel riuscire a mettere le parole una dietro l’altra, con il senso che gli volevo dare. Vale quanto contava per l’operaio della Triscele alzarsi ogni giorno come suo padre e suo nonno alle cinque del mattino, andare nello stabilimento di via Bonino e creare dall’acqua dei pozzi la nostra Birra Messina, quella che è la più buona del mondo. Quando mio figlio era in terza elementare ha fatto a scuola un piccolo presepe di cartapesta, che non è un’opera d’arte, ma sono passati dieci anni e lui ogni anno vuole solo questo. Gli piace perché è il suo Art Attack, l’ha fatto lui e anche se il papa non vuole più il bue e l’asino perché dopo duemila anni ha deciso che non c’erano e noi ce l’abbiamo (e avevamo pure le zebre e le scimmie) e l’avremo pure l’anno prossimo anche se nel frattempo il papa scoprirà che non c’erano neanche i pastori o la signora che porta l’acqua. Se un’intera città perde l’orologio che fa alzare al mattino, perde la gioia del produrre, rischia di perdere l’identità. A volte penso ai lavoratori dei Molini Gazzi, alcuni di loro adesso si sono riuniti in cooperativa e hanno ripreso quella che era la storica attività, ma in un altro luogo. O i lavoratori della Rodriquez che ci ha reso famosi nel mondo. La magia dell’Art Attack rende ognuno di noi speciale e diverso dagli altri, ce lo rende ai nostri occhi. Piano piano si sono spente le luci in troppe case dove la sveglia la mattina alle cinque, piuttosto che alle sette, non suona più. E’ arrivato il momento di ricaricare l’orologio e puntare nuovamente la sveglia, anche se all’inizio verrà un presepe con le case troppo piccole rispetto agli alberi e con le zebre che a Betlemme non ci sono mai state. Perché anche se le montagne si afflosciano e non abbiamo il colore giusto per la sabbia, ci manca il muschio e di angeli che ci benedicono ormai non se ne trovano più, deve essere l’inizio. I ragazzi che hanno occupato il Teatro in Fiera, hanno iniziato a disegnare un futuro, gli operai della Birra Messina hanno un’idea, anche quelli dell’Atm, del Vittorio Emanuele se glielo chiedi sanno esattamente come uscirne fuori. Chi è “dentro” conosce i meccanismi dell’orologio. C’è immensa questa voglia di rialzarsi e fare il nostro magico Art Attack, questo l’ho fatto io. E sarà la Messina che lasceremo ai nostri nipoti. C’è una frase detta ieri da Renato Accorinti che mi è piaciuta molto: “Dobbiamo lavorare anche per cose che non potremo vedere”. Dobbiamo mettere quei mattoni per i castelli che vedranno i nostri nipoti, che un giorno neanche sapranno che la prima pietra l’ha messa il signor Giuseppe o la signora Maria,però noi sì, noi lo sappiamo. Ma se non ci alziamo non lo scopriremo mai.

Rosaria Brancato