Nella stanza dell’istinto, l’eco della menzogna

Nell’abisso dell’animo, tra le foreste dei pensieri, le paludi del ricordo e dell’esperienza, giace, in un angolo remoto, la radice salda, ciò che di più profondo possa esserci in un uomo, l’istinto, ciò che per definizione vive e si nutre della sostanza umana. Ed è proprio sulla profondità che si gioca la narrazione di questa prima stanza, quella dell’Istinto, de “Il paese dei balocchi”, il laboratorio teatrale ideato e diretto da Angelo Campolo e Annibale Pavone che andrà in scena alla Sala Laudamo fino al 23 novembre e ancora dal 27 al 30 novembre.

Al centro della scena, un Mastro Ciliegia (Simone Corso) e un Geppetto (Lelio Naccari) indifferenti, mediocri con la bocca ricolma di vocaboli e filosofia da centro estetico periferico degli anni zero, due uomini la cui semplicità morale susciterebbe quasi tenerezza, se non fosse per la brutalità delle parole di cui si avvalgono e dall’ostinata volontà di preferire a un figlio un burattino di legno a propria immagine e somiglianza. Due figure che vacillano sul filo dell’ambiguità di una generazione di cinquantenni narcisi e un po’ inetti, cresciuti all’ombra della sicurezza sociale. A fare da contraltare all’ottusa solidità ideologica dei due adulti, un groviglio umano di pinocchietti, chiassosi, snodabili, sfacciati, disperati, talvolta confusi, spaventati e allo stesso tempo impavidi, pronti al fatidico salto nel buio piuttosto che alla resa dell’incancrenimento nell’inedia del quotidiano.

La narrazione è dinamica, squillante e coinvolgente, con momenti di puro e grottesco divertimento, ma anche pause di sincero trasporto e intensa commozione. Guidati dall’istinto, i pinocchi si muovono scoordinati, impazziti, meccanici ma umani e sfuggono al controllo di Geppetto, incapace di alcuna autorità. Una macchia umana bellissima e ingestibile che porta gradatamente lo spettacolo ad assumere le sembianze di un gioco che dal palcoscenico defluisce nel pubblico, con gli attori che si insinuano in platea. In questo gioco collettivo, uno spettatore inconsueto controlla il traffico delle informazioni visive/ uditive/ emotive: il regista Angelo Campolo che, con un piglio tra il voyeuristico e il finto demiurgico, segue gli attori, ora dal palco, ora dal pubblico, guardando l’intesa tra i due flussi e intervenendo, talvolta, sulle battute stesse degli attori.

Un’esperienza entusiasmante e positiva di fisicità e fusione, il lavoro di Campolo e dei suoi ragazzi riesce a raccontare con leggerezza e senza alcuna pretesa sociale la storia più antica e sempre nuova, i sentimenti invariati nel tempo, quali la paura, il fallimento, la menzogna, l’amore, ma anche la storia di una generazione che, malgrado le avversità del proprio tempo, non ha perso l’incanto e la capacità di stupirsi.



Giuseppina Borghese