Caso Tomasello. Il prof. Amoroso:« Io vittima di una vicenda che mi ha risucchiato in un vortice di amarezza immensa»

Illustre Direttore,

in data 14 febbraio 2016, a firma di Guglielmo Pispisa, viene da Lei pubblicato l’articolo “Caso Tomasello: il paradosso dell’aver torto perché si ha ragione” (vedi qui). La vicenda che lo detta è così nota, oramai, all’opinione pubblica nazionale da non richiedere troppi dettagli in merito alla sua origine, anche perché, per quanto mi riguarda, la gravità, penale e morale, di essa è talmente alta che ben altre sedi sono state da me chiamate a giudicarla. E non dubito che la Legge darà presto la sua risposta. Purtroppo, tutti conosciamo gli obbligati tempi della giustizia. O, per lo meno, quasi tutti li conosciamo, tranne, forse, il dott. Pispisa, il quale, se non ho frainteso le sue parole, sembrerebbe già propenso a ritenere la vicenda degna del dimenticatoio nazionale poiché, fino ad ora, che lui sappia, l’amico (suo) e collega (suo) Dario Tomasello non sarebbe stato rinviato a giudizio.

Poiché il sottoscritto non può esprimere in merito all’iter giudiziario, e alle sue tappe, alcuna ipotesi dettagliata, ritengo opportuno non entrare in tale questione. E sarebbe stato opportuno, a mio parere, che anche il dott. Pispisa non si fosse affrettato, diciamo così, a “chiudere la vicenda” giudiziaria immaginando un’eventuale mancanza di «estremi di reato». Ma – ed è comprensibile – l’affetto e la stima per un amico possono indurre, a volte, a parole e passi frettolosi verso strade ancora poco illuminate: e quanto grande sia la stima che il dott. Pispisa nutre verso l’amico Tomasello lo si evince leggendo l’elogio (duplice: all’uomo, e allo studioso) che di lui tesse nel suo articolo, evocandone la «cortesia nobile», l’affabilità verso chiunque («Quando ti incontra, poi, Dario Tomasello ti abbraccia, ti tocca, ti coinvolge, ti dà e si fa subito dare del tu…»), il pudore, si potrebbe dire, nel presentare i frutti del proprio lavoro (il Pispisa parla di «contegnosa stringatezza»), nonostante, a detta dell’amico, il curriculum del Tomasello sia «così sfrontatamente gonfio e debordante».

Ma, essendo l’amicizia e la stima verso qualcuno sentimenti che, meritando sempre un grande rispetto, non vanno chiamati troppo in causa, preferisco limitarmi agli accenni sopra fatti e non proseguire oltre su un tasto che, comunque, trova ampio spazio nell’articolo del Pispisa e, di conseguenza, resta impresso nel lettore.

Ben altre occasioni di riflessione offre il testo del dott. Pispisa, il quale, da parte sua, afferma di parlare (e cito testualmente) «con cognizione di causa», di giudicare su di un piano «semplicemente razionale» e, in merito ai dati della vicenda, arriva a dichiarare di possederne «qualcuno in più di quelli che gridano allo scandalo». Orbene, poiché un urlo allo scandalo l’ho lanciato anch’io, e più di chiunque altro, avendo visto i miei libri (non «una manciata di pagine», come sostiene il Pispisa rivelando una discreta disconoscenza del caso, bensì libri e libri) finiti dentro testi firmati dal Tomasello, mi sento chiamato in causa dall’autore del pezzo al quale ritengo di avere diritto e dati (in numero, mi spiace per lui, ben maggiore di quello che egli possiede) per dire che il plagio, ai miei danni, contestato al prof. Tomasello è tutt’altro che un «equivoco» come, invece, egli dichiara, presumendo che, «da un punto di vista tecnico», non sembra esservi alcun plagio, ma quest’ultimo abbia solo i toni del «rimprovero metodologico e filosofico» poiché – riassumo le parole del Pispisa – il Tomasello, invece di seguire l’esempio di tanti illustri accademici che hanno fatto carriera sfruttando le fatiche di anonimi allievi, costretti a scrivere libri per i big, ha preferito attingere lui dal proprio “maestro”. Non dilungandomi su tale pensiero, e sulla “tecnica oratoria” che lo detta (far passare in silenzio una possibile colpa, riversando su di essa un’altra possibilmente più rumorosa), preferisco chiedere al redattore dell’articolo, convinto che Dario Tomasello sia vittima di un «dissidio filosofico e stilistico» e che, per parlare di plagio, non sia sufficiente copiare frasi dai libri altrui, ma devono essere prelevati anche «l’idea, il senso posti alla base di un’opera d’ingegno», cosa proverebbe se, una bella mattina, scorgesse nei libri di qualche collega intere pagine dei suoi scritti, anzi, si rendesse conto che l’intera carriera di quel collega è stata costruita anche attraverso titoli che sono spesso frutto di un vero copia-incolla dalle sue pagine. Probabilmente, stando alle sue affermazioni, non nutrirebbe alcun rammarico se notasse che il collega si è “limitato” a rubargli capitoli, pagine intere, ma non…l’”idea”, il “senso” . Perciò, per rischiare un’accusa di plagio, non basterebbe scrivere un saggio su Mozart, incollando pagine di un libro dedicato, che so io, a Picasso. Bisognerebbe, invece, almeno…incollare anche l’”idea”, il “senso” e quindi utilizzare capitoli, se non proprio di un altro libro su Mozart, almeno di uno su Chopin. Opinioni: interpretabili, ribaltabili, come ogni opinione. Risibili, come alcune opinioni. Certo, ben poco da ridere, almeno per me, c’è stato nel vedere, ad esempio, che il mio studio sul romanzo di Rugarli, La troga (cfr. G.Amoroso, in Per quella voce, quel nulla, Morcelliana, 1992) è diventato miracolosamente una pagina di critica cinematografica, essendo finito dentro la premessa del volume di Tomasello Ma cos’è questa crisi? (il Mulino, 2013), o che il ben noto studio del prof. Tomasello su Pascoli prosatore, edito da Olschki nel 2005 è, come dire, un allegro puzzle dei miei saggi su Prati, Piccolo, Volponi, Calvino, Cassola ecc. ecc….E potrei continuare all’infinito, citando molti volumi miei e le loro clamorose corrispondenze in luoghi di Tomasello. Può anche brillare in tale amara e, mi permetta di dirlo, squallida rassegna di fogli. E un sorriso mi è sfuggito quando ho notato che, preso dal suo furore scrittorio (o meglio, trascrittorio…), Tomasello, a volte, ha trascurato di aggiustare i pezzi qua e là prelevati per adattarli al suo personale contesto; e così, ad esempio nella sua monografia su Antonio Delfini (Le Lettere, 2012), a un certo punto il lettore si trova a fare i conti con “il cuore” di una certa Amalia. Amalia? Chi era costei? Si chiederebbe il manzoniano Don Abbondio, e stavolta ne avrebbe diritto: poiché nessuna Amalia è presente nelle pagine di Delfini e quindi nessuna Amalia dovrebbe essere presente nelle pagine critiche (?!) scritte da Tomasello su Delfini. Ma la spiegazione è semplice. Amalia è la protagonista dell’omonimo racconto di Bonaventura Tecchi: di lei (e del suo cuore) parlo nella monografia che su Tecchi ho scritto per La Nuova Italia, nel 1976, ma poi, assurdamente, la cara donna (con tanto di apparato cardiaco…) finisce dentro le pagine del Tomasello su Delfini, essendo queste trascrizione delle pagine mie su Tecchi. Se desidera un confronto, un sorriso, una sorpresa, il lettore può verificare il tutto aprendo p. 23 del mio citato studio e p. 70 del libro in questione del Tomasello. E che dire di certi…innamoramenti verbali che ho scorto in alcune pagine del Tomasello (dovrei dire mie…). Mi spiego meglio: a volte, qualche pagina da me scritta dev’essere così piaciuta al prof. Tomasello che non si è limitato a “sfruttarla” una sola volta, ma l’ha propinata ai suoi lettori in più libri. Penso al mio studio su Lucio Piccolo (1988) che ritorna in più pagine del Tomasello: da Nessuno torna alla sua dimora (2009) ad Antonio Delfini (2012); da L’isola o-scena (2012) a Un assurdo isolano (2009) ecc. ecc.

Concludo rispondendo ad una domanda posta dal Pispisa ai suoi lettori: «Ha senso allora che questo episodio invalidi o infanghi tutta la carriera e l’intera produzione scientifica di Tomasello?» Illustre dott. Pispisa, da lettore del suo articolo, e soprattutto da vittima di una vicenda che, purtroppo, mi ha risucchiato in un vortice di amarezza immensa, le confesso che, a mio schietto parere, questo «episodio», come lei riduttivamente lo definisce, non solo ha tutto per infangare e invalidare chi lo ha messo in atto, ma infanga e invalida, loro malgrado, in quest’ultimo caso, e senza che ne abbiano colpa alcuna, anche quanti, di giorno in giorno, tentano, nell’Università, e in genere nella vita, di andare avanti contando esclusivamente sulle forze loro e del proprio ingegno. Infanga e invalida, questo «episodio», oltre cinquant’anni di lavoro da me svolto dentro e fuori l’Accademia, con una passione e un’intensità che, spero, possa restare nel ricordo dei miei allievi. Avrei voluto restasse e passasse anche attraverso i miei libri. Ma qualcuno ha deciso di fare del mio lavoro carta straccia libera di svolazzare da un testo all’altro, da un tempo all’altro, da un concorso all’altro. Il paradosso dell’aver torto perché si ha ragione. Scusi tanto, dott. Pispisa, se trascuro le virgolette nel citarla. Lei capirà.

Ringraziando dell’ospitalità, porgo i miei distinti saluti.

Giuseppe Amoroso