«I padroni di casa ci avevano detto che potevamo stare». Le testimonianze degli sgomberati che ora chiedono casa

“Si prega gentilmente di chiudere il portone”. Una frase che spesso capita di leggere sui cancelli di molte palazzine della città, ma che nel contesto degli edifici Iacp di Fondo Basile, sgomberati ieri, assume un “sapore” ai limiti del paradosso. E d’altra parte non potrebbe che essere così pensando che a pochi metri di distanza da quel portoncino civilmente chiuso, tanti altri ingressi sono stati sfondati per essere occupati dalle 12 famiglie che per più di un mese ne hanno abusivamente preso possesso, per le vicende ormai ben note (vedi correlati). E proprio loro, gli abusivi da una parte, i legittimi assegnatari dall’altra si sono ritrovati faccia a faccia, gli uni hanno osservato e scrutato gli altri in quella che, come più volte abbiamo avuto modo di dire, non è che una “guerra” tra poveri. E anche stavolta a perdere, prima di tutti, sono stati coloro che hanno “dall’alto” della loro piccola statura, con gli zainetti in spalla, hanno osservato gli omoni in divisa costringerli ad abbandonare le stanze in cui avevano sistemato i loro tesori più preziosi: bambole, macchinine, costruzioni, raccolti in fretta e furia e “confezionati” nei tipici sacchetti utilizzati per la spesa.

E molti di questi bambini, nelle prime ore del pomeriggio di ieri, si sono trovati catapultati in una nuova grande casa, anzi un “palazzo”, che nel loro piccolo mondo di fantasia è diventato un parco giochi. Parliamo, naturalmente, di palazzo Zanca, dove un gruppo di cittadini, anzi di cittadine, in rappresentanza di sei delle dodici famiglie sgomberat, si sono recate chiedendo di poter incontrare il sindaco o l’assessore Sparso. La richiesta è precisa: «Vogliamo una casa e non ce ne andremo finché non la otterremo. Anche noi ne abbiamo diritto». Parliamo con Giusy Cartella, madre di una figlia di nove anni affetta da problemi di salute, parliamo con Maria De Biase, tre figli (9, 11, 13 anni) separata, parliamo con Anna Sparacio, vedova anche lei con tre figli: parliamo con tutte ma in fondo basterebbe farlo con una sola perché le motivazioni non cambiano, si arricchiscono solo di particolari che, in un modo o nell’altro, aiutano a definire i contorni di quella guerra fra poveri, di cui spesso sono proprio i “poveri” a dettare le regole. Ma i metodi, per quanto basati su accordi “interni”, (ma non in tutti i casi) si scontrano, inevitabilmente con la legge. Una legge, più o meno condivisibile che però va rispettata.

«Tra di noi – esordisce Giusy, cresciuta in una casa famiglia – la voce era girata. Sapevamo di queste case che erano vuote e così le abbiamo occupate. Io prima di questo avevo sfondato in un altro appartamento, (riportiamo testualmente, ndr), però privato, al complesso “Casa Nostra”. Ci sono stata cinque mesi, era bello, avevo doppi servizi, due stanze grandi, ero in una vera casa. Poi però mi hanno fatto uscire, sono stata in affitto per un periodo e poi ho sfondato qui. E ora non intendo perdere i sacrifici di due mesi: siamo stati senza luce, senza acqua, ma abbiamo resistito. Ora anche abbiamo diritto», ribadisce Giusy affamata di sonno, ma anche di rabbia, dopo una notte trascorsa nell’attesa dello sgombero.

Domandiamo alle donne cosa pensano però di quanti, al posto loro, e soprattutto, con pieni diritti, avrebbero dovuto essere in quelle stesse case: la risposta aiuta a far luce su logiche che probabilmente spingono anche a dovere rivedere il concetto di “guerra fra poveri”: «I padroni di casa (ovvero i legittimi assegnatari, ndr) ci hanno detto che potevamo stare. A loro interessa solo che gli danno un’altra casetta e noi saremmo potuti rimanere lì. Adesso invece nessuno ha più casa, né noi, né loro, che pensavano di poterci andare subito e invece non è stato così». Gli appartamenti, infatti, come documentato anche nella cronaca di ieri, sono stati sottoposti a sequestro e al momento nessuno può entrarvi. Gli abusivi, che però, anche alla luce di quanto appena detto, tali non si ritengono, sono pronti a fare il possibile per ottenere un tetto: «Ci basta anche una baracca». Perché la cultura non cambia e i piccoli con in spalla gli zainetti ci hanno già fatto l’abitudine. (ELENA DE PASQUALE)

(FOTO STURIALE)