30 anni dall’omicidio di mafia: “A che serve essere vivi se non si ha il coraggio di lottare?”

Era il 5 gennaio 1984. Giuseppe Fava stava aspettando seduto sulla sua Renault 5, in via dello Stadio, dinnanzi al teatro Verga di Catania. Aspettava sua nipote che, proprio quella sera, stava recitando in “Pensaci, Giacomino”. Non gli diedero neanche il tempo di scendere dalla macchina. Alle 21.30 fu freddato brutalmente da cinque proiettili calibro 7,65, tutti sparati alla nuca.

Quella sera, pochi catanesi credettero che ad uccidere quel coraggioso giornalista fosse stata la mafia. In molti, invece, sostennero la pista del delitto passionale e vi fu anche chi dichiarò apertamente che la mafia a Catania non esisteva. Neanche il suo funerale, che si tenne nella chiesa di Santa Maria della Guardia in Ognina, fu un funerale di Stato.

Per anni Giuseppe Fava non fu ricordato come vittima della mafia. Freddato sì, brutalmente pure, ma la pista di Cosa Nostra era restia a prender piede, soprattutto quando molti solevano ancora ricordare che, in quella provincia sicula, la mafia non esisteva. Solo successivamente la magistratura cominciò a far luce sulla figura di un uomo che aveva sempre svolto il suo mestiere con coraggio, denunciando ed attaccando senza timore quella parte della Sicilia malata che erano le collusioni tra Cosa Nostra e varie fette di imprenditoria catanese.

Il processo si concluse nel 1998, lo chiamarono Orsa Maggiore 3. Quel giorno, per la Sicilia sana fu una vittoria eclatante. L’omicidio di stampo mafioso di Giuseppe Fava ebbe dei nomi e delle condanne eccellenti: Nitto Santapaola fu ritenuto il mandante, Marcello D’Agata e Francesco Giammuso gli organizzatori, Aldo Ercolano ed il reo confesso Maurizio Avola gli esecutori. Tre anni dopo la Corte d’Appello confermò le condanne per Santapaola e Ercolano, mentre furono assolti D’Agata e Giammuso. L’ultimo processo si concluse poi nel 2003 con la conferma, da parte della Corte di Cassazione, dell’ergastolo per Santapaola ed Ercolano, mentre ad Avola vennero dati 7 anni patteggiati.

Durante il lunghissimo processo, fu lo stesso Avola a rivelare perché Giuseppe Fava fosse divenuto un “morto che cammina”, il secondo civile brutalmente assassinato dopo l’omicidio di Peppino Impastato. Avola disse che Santapaola organizzò l’uccisione del giornalista per conto di alcuni imprenditori catanesi, anche se poi nessuno di loro fu condannato come mandante.

Giuseppe Fava ha pagato il prezzo di essere un giornalista scomodo, dell’aver interpretato la sua missione come “realizzare giustizia e difendere la libertà”, di esser stato direttore del Giornale del Sud ed essersi schierato contro l’istallazione della base missilistica a Comiso, di aver sostenuto l’arresto del boss Alfio Ferlito e, in generale, di non aver avuto mai paura di parlare di mafia e Cosa Nostra.

Ha pagato il suo essere leale con cinque colpi di pistola nella nuca, freddato senza pietà perché quando fu direttore della sua rivista I Siciliani non si abbassò mai a trucchi e compromessi con le cosche. In una delle sue inchieste più celebri I quattro cavalieri dell'apocalisse mafiosa non ha usato mezzi termini nel ricollegare le attività illecite di quattro imprenditori catanesi, (Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro) al boss Nitto Santapaola.

Cinque colpi di pistola nella nuca sono un prezzo caro per un giornalista che svolge solo il suo mestiere nel modo più onesto e leale possibile, per un uomo che ha debellato dal suo vocabolario la parola “omertà” e “connivenza”, per una stampa libera che racconta i fatti e denuncia corruzioni e sistemi malati. “Qualche volta mi devi spiegare chi ce lo fa fare, perdìo. Tanto, lo sai come finisce una volta o l'altra: mezzo milione a un ragazzotto qualunque e quello ti aspetta sotto casa…”.

Veronica Crocitti