La parola ai rom: «Meglio vivere in mezzo i topi senza perdere la dignità»

Pensando all’incontro con Benedetto XVI i loro volti si illuminano con un sorriso, ma nel momento in cui gli viene chiesto come stanno vivendo questa nuova fase della loro vita, i visi tornano scuri e si incupiscono. Sì, perché loro che nelle promesse ci hanno creduto, e pure tanto, adesso si sentono delusi, soli e abbandonati. Hanno ancora ben impressa in mente la notte in cui hanno abbandonato il campo di San Raineri, anzi no il “Villaggio di Fatima”, così come lo hanno chiamato in onore alla Madonna: nel buio, come i ladri, non come si sarebbero aspettati. Le voci sono tante, ma i pensieri sono univoci, e oggi alla domanda “come avete vissuto lo sgombero del campo” rispondono a chiare lettere, perché tanto le promesse a cui aggrapparsi sono finite: «Non pensavamo andasse così».

Isuf Ferizaj che a San Raineri ha sempre rappresentato uno dei punti di riferimento della comunità, si commuove ancora ripensando alla vita trascorsa in quel tratto di spiaggia a ridosso del mare: «L’estate era bella da trascorrere lì, ma l’inverno era un vero inferno. Da questo momento in poi spero di poter dare una vita migliore ai miei figli», ci confessava in occasione dell’intervista effettuata prima dello sgombero (vedi correlato). Oggi invece le sue parole sono ben diverse: «Noi volevamo uscire dal campo, da quella situazione precaria – afferma, come si legge nell’intervista pubblicata sul sito dell’Arcidiocesi di Messina – ma quello che ci ha fatto rabbia è vedere tanta improvvisazione in un momento così delicato per la vita delle persone. Abbiamo tollerato uno sgombero in piena notte, anche se ci è stato difficile far capire ai nostri bambini che si trattava di un trasferimento. Abbiamo avuto paura quando la gente protestava contro di noi e rivedo ancora il volto impaurito delle nostre donne, sembravano essere ritornati i fantasmi di episodi vissuti in una terra che avevamo ormai lasciato da tempo». Il progetto previsto dall’amministrazione non è ancora terminato, ad essere stata conclusa, pur se con qualche difficoltà per la sistemazione delle famiglie non in graduatoria, è infatti la prima fase, quella appunto dello sgombero. Vedendo però come la situazione è stata gestita finora, Isuf Ferizaj si dice sfiduciato per ciò che potrà accadere quando verrà avviata la fase dell’autocostruzione, che per i rom appare oggi come un grande punto interrogativo.

Non appaiono certo più tranquilli Mirsad e la moglie Neurija. Entrambi, con le rispettive famiglie, sono arrivati a Messina all’età di dieci anni, nel 1991, hanno trascorso infanzia e adolescenza al campo San Raineri e oggi vivono in 13 persone in un appartamento di 120 mq: «Noi rimpiangiamo il campo – affermano oggi – è vero che fuori quando pioveva eravamo nel fango, è vero che di notte giravano i topi, ma ognuno aveva la sua abitazione e una riservatezza che qui è impossibile. I miei figli sono ormai grandi e non è giusto che stiano nella camera da letto con noi». Sono rassegnati, non credono più alla provvisorietà di questa sistemazione nè tantomeno al rispetto dei tempi previsti per la realizzazione delle unità abitative che li dovrebbe vedere protagonisti nella fase dell’autocostruzione.

Dell’entusiasmo presente nei loro occhi nel momento in cui gli assessori Isgrò e Caroniti, in quella ventosa notte del 1 aprile consegnarono loro le chiavi dei nuovi appartamenti, non c’è più traccia, negli occhi solo il rimpianto per ciò che è stato lasciato: è vero, lo riconoscono loro stessi, d’inverno si pativa il freddo, d’estate il caldo, la sera si intravedeva qualche topo, ma la dignità di esseri umani non era mai messa in discussione. Una dignità di cui oggi si sentono completamente privati. E se nel leggere certe affermazioni di Isuf o di Mirsad c’è chi sicuramente proverà stupore, più che sorprendersi sarebbe necessario riflettere: perché oggi non chiedono una nuova casa, ma le loro vecchie baracche: vecchie ma dignitose. (ELENA DE PASQUALE)