“Dongiovanna”, una sconfinata solitudine

Esiliata nel limbo di una filosofia che diviene pratica solipsistica, Dongiovanna illustra le infinite variazioni sul tema della femminilità: la gelosia, il coraggio, il senso di abbandono, la sensazione di essere di troppo in un contesto sopraffatto dai valori tradizionali. Nel serrato confronto con le ennesime vittime di uno stereotipo, la dialettica produce verbose riflessioni interrotte dalla libertà del canto: magra consolazione in una sconfinata solitudine.

Imbocca mille direzioni nella notte buia la donna portata in scena da Giovanna Giuliani nell’ultimo appuntamento della rassegna “Discordanze teatrali” del SabirFest: abbandonato ogni discorso sul metodo, “Dongiovanna – Corpo senza qualità” si smarrisce colpevolmente nei mille rivoli di una speculazione prolissa e autocompiaciuta. A poco vale, in questo senso, l’impegno di un’attrice mirabile per doti e volontà, leggiadra anche nei momenti di maggiore debolezza. Tratto dal saggio “Il corpo senza qualità. Arcipelago queer” della filosofa Fabrizia Di Stefano, lo spettacolo soffre di un adattamento forzato, lento nel suo dispiegamento, muto nella sua riflessione sul contemporaneo. Nessuna idea a brillare di luce propria, annacquata ogni forma di ironia: un flusso di coscienza vuoto che non proietta il suo corso in nessun altrove. In un’epoca che vede il sessismo come una delle principali componenti del dialogo politico, “Dongiovanna” resta smarrito nel magma del già detto, sempre ripiegato su una sterile intimità.

Una donna senza qualità quella che emerge sul palco della Sala Laudamo tra i mille interrogativi che guidano e condizionano l’esistenza umana: la questione di genere è solo un terreno su cui costruire un castello di carte di pensieri ondivaghi, contraddittori, pallida traduzione di un dissidio interiore.

Domenico Colosi