Cultura e spettacoli

Spiro Scimone tra la forza dei sogni e il teatro come educazione all’ascolto. L’intervista

– Foto di Gianni Fiorito

MESSINA. La compagnia Scimone Sframeli – fondata a Messina nel 1994 da Spiro Scimone e Francesco Sframeli – torna nella sua città con l’ultimo lavoro: “Fratellina”, in scena al Teatro Vittorio Emanuele dal 12 al 14 gennaio. Spiro Scimone e Francesco Sframeli interpretano insieme a Gianluca Cesale e Giulia Weber i quattro protagonisti: Nic, Nac, Fratellino e Sorellina, in un testo brillante scritto da Scimone e la regia diretta da Sframeli, con scenografia di Lino Fiorito, i costumi di Sandra Cardini, il disegno luci di Gianni Staropoli.
“Fratellina” – vincitore del Premio Le Maschere del Teatro Italiano 2023 “Migliore novità italiana” – racconta, tra le tinte tragicomiche tipiche del teatro di Scimone e Sframeli, l’apparenza e la realtà, la ricerca di un qualcosa di diverso, ricco ancora di colori, la riscoperta del bisogno dell’altro, di legami autentici e pieni di significato.
Ne abbiamo parlato con Spiro Scimone.

L’intervista

Cosa dobbiamo aspettarci da “Fratellina”?

“Fratellina” è l’ultimo lavoro mio e di Francesco Sframeli e, come in tutti i nostri lavori, anche in questo caso, cerchiamo di raccontare e rendere protagoniste quelle persone che sentono il bisogno di cercare una realtà diversa. Realtà che creiamo, poi, attraverso l’arte teatrale. Quattro protagonisti – Nic, Nac, Fratellino e Sorellina – vivono ognuno nel proprio letto. Le due coppie di letti a castello sono il luogo da cui dialogano, mostrandosi nella loro interiorità, nei loro sentimenti, nella loro tenerezza, nel loro bisogno di avvicinarsi agli altri. Abbiamo cercato di scrivere, leggere e interpretare tutto questo con grande leggerezza e nel continuo equilibrio, comune ai nostri testi, tra dramma e comicità.

Una riflessione, quindi, sui rapporti umani, sul bisogno dell’Altro, del suo riconoscimento. L’arte ci spinge ad aprirci all’Altro? Risponde a quel nostro forte bisogno di prossimità?

L’arte ci aiuta e ci educa al bisogno dell’Altro, ci spinge alla sua ricerca. Non esiste arte senza questo bisogno e senza la necessità di valorizzare il rapporto umano rispetto a quello virtuale, il contatto, l’abbraccio, lo sfiorarsi. I temi che ritroviamo nello spettacolo sono quelli, secondo noi, fondamentali per aiutare l’essere umano ad amare sempre di più se stesso, chi gli sta vicino e, ancora di più, chi sente lontano. Lo spettacolo vuole raccontare questo desiderio di riscoprirsi vicini. Noi ovviamente lo facciamo tramite l’arte teatrale. Il teatro incarna in sé questo bisogno dell’altro, non può esistere senza di esso, si può creare solo nel momento in cui c’è un vero ascolto. Ci instrada, così, in un percorso di ascolto non soltanto delle parole ma anche dei silenzi che, a volte, comunicano molto di più, ci insegna ad aprire la nostra anima all’altro, ad accogliere le sue esigenze e la sua unicità. L’ascolto è, infatti, ancor più indispensabile nella nostra realtà, l’incapacità di ascoltarsi è la fine dell’essere umano. Per questo, per questa sua capacità di educare all’ascolto, il teatro va difeso, promosso e trasmesso ai giovani.

I protagonisti vogliono ritrovare i colori naturali che abbiamo ormai dimenticato. Come può l’arte aiutarci a farlo? E questa ricerca, nello spettacolo, avrà a che fare con quanto ci siamo detti?

Sì. È proprio questo. Senza rivelare troppo, dico solo che il pubblico vedrà nello spettacolo, in questo suo meccanismo tipicamente teatrale, nel suo gioco infantile e nella sua purezza quasi fiabesca, la scoperta e la riscoperta del valore dei piccoli gesti per colorare la nostra realtà. I nostri sogni sono sempre più cupi, ma è possibile ancora ritrovarne la luce.

In una carriera che ha girato tutto il mondo, con testi tradotti in tutte le lingue e infiniti riconoscimenti, qual è l’emozione di tornare sul palco del Teatro della propria città?

È sempre una gioia particolare, difficile da descrivere a parole. Rappresentiamo a Messina ogni nostro lavoro e tornare, ogni volta, crea un’emozione diversa da tutte le altre. Incontriamo i nostri amici, i coetanei, le persone che conosciamo da tempo e cui vogliamo bene, ma anche tante generazioni diverse dalle nostre. Vedere i giovani ai nostri spettacoli ha qualcosa di speciale. Sapere che, prima, seguono il nostro lavoro attraverso i libri e, poi, lo ritrovano sul palco, ci riporta a 30, 40 anni fa, alla nostra giovinezza e ai nostri sogni. Ci lega a loro l’amore per la stessa passione. Noi abbiamo realizzato e continuiamo a realizzare sempre più sogni e come noi possono farlo davvero tutti. È importante che i sogni dei giovani continuino a vivere in loro, siano valorizzati, sostenuti, incoraggiati, non bloccati. Non sarà facile, ma questo non deve fermarli dal crederci. Anzi, rende il tutto ancora più importante, se fosse facile se ne perderebbe la bellezza. I sogni potrebbero, poi, anche non realizzarsi, ma rimarrà la soddisfazione e la gratificazione di averci creduto e di aver fatto tutto il possibile. Fermarsi al primo ostacolo lascerebbe, invece, il ben più doloroso dubbio e rimorso su cosa sarebbe potuto essere se avessimo tentato di più.

Ha costruito un linguaggio teatrale unico, tutto suo. Qual è la cosa principale che vuole comunicare con esso?

Il linguaggio teatrale mio e di Francesco [Sframeli] inizia con i primi testi in lingua messinese, poi in italiano, ma in entrambi i casi ciò che lo caratterizza è il modo in cui le parole sono messe insieme e costruite. Il linguaggio non nasce solo dal pensiero ma da un discorso fisico, da un corpo teatrale che vive nella rappresentazione e già durante la fase di scrittura. Agli incontri di drammaturgia, quando ci chiedono come si inizia a scrivere un testo teatrale, rispondiamo sempre: “Non lo so, non vi è una legge, posso solo dire come inizio io”. Io inizio cercando di trovare i corpi dei personaggi prima delle parole, il loro corpo è vivo, fatto di sangue, anima. Nel momento in cui lo trovo – si parla sempre di un corpo teatrale e non naturale – questo vive attraverso l’attore suggerendo le parole giuste da scrivere. Naturalmente tutto deve, però, partire da una necessità, dall’esigenza di trasmettere qualcosa che viene da dentro e dalla capacità di saperlo raccontare.

Quali sono le vostre fonti di ispirazione?

Nei nostri spettacoli e nella nostra drammaturgia trovi i grandi autori del teatro dell’assurdo, tra Beckett, Ionesco, Pinter, Kafka, e tanto Pirandello come stile di scrittura. Ma la fonte principale, il nostro maestro indiscusso è il più grande in assoluto: Shakespeare. Il discorso, il ritmo, la modernità, in Shakespeare c’è tutto. Le fonti d’ispirazione però, guidano a trovare qualcosa di tuo e pertinente solo a te stesso. Ogni cosa nasce dal nostro vissuto, dalla nostra terra, dalla nostra esperienza, dalla nostra cultura e dal nostro modo di osservare soprattutto gli altri.

Pur mantenendo sempre precise e inconfondibili le vostre cifre stilistiche, dal 1994 ad oggi come si è sviluppata la vostra ricerca?

In questi trent’anni di teatro, ogni nostro nuovo lavoro ha qualcosa del precedente e qualcosa che tornerà nel successivo. Pur nella loro totale diversità e unicità, c’è sempre un punto di contatto tra le nostre opere. È inevitabile, però, che dal nostro primo spettacolo “Nunzio” a “Fratellina” ci sia stata un’evoluzione, sebbene mantenendo quella stessa cifra stilistica riconosciuta e riconoscibile nel mondo. La nostra ricerca andrà avanti e continuerà finché sentiremo la necessità di farci delle domande e la volontà di trasmetterle agli altri nel teatro.

Per finire, allora, quali saranno i vostri progetti futuri?

Porteremo “Fratellina” nei teatri d’Italia e d’Europa, il prossimo appuntamento è a Roma tra un mese. Quest’ultimo spettacolo ci ha già dato grandi soddisfazioni tra pubblico, critica e premi, ma sentiamo che abbia ancora tanto da regalarci e da regalare a chi ci segue. Poi continueremo – ci auguriamo – con un nuovo lavoro, come sempre ne parleremo più in là.