Le case di Tremonti, simbolo di un crollo che ha cancellato palazzi e diritti

Ho ascoltato i racconti delle famiglie delle case di Tremonti-Ritiro, sabato alla conferenza stampa del V quartiere e per la testa mi echeggiavano le parole “civis, civitas,” intese nel senso più nobile del termine, quel senso di appartenenza dell’individuo ad una comunità basata sul “ius”,il significato di “cittadino” che ci ha regalato la stagione rivoluzionaria francese di uomo libero con diritti e doveri contrapposto al suddito. Eppure mentre il signor Gaspare Romeo raccontava un calvario di 20 anni, senza vergognarsi dei suoi occhi rossi, a me quelle parole, civis, civitas non andavano via dalla testa. Il signor Romeo, come gli altri acquirenti degli appartamenti di Casa Nostra e delle altre cooperative ha messo insieme lira per lira per comprare una casa. Lo vedevi negli occhi dei presenti, facce pulite, padri di famiglia che hanno sacrificato una vita intera per quel sogno. Nel 1992 io c’ero quando le abitazioni di Casa Nostra sono crollate e le crepe invadevano le camere da letto, e ho intervistato quelle famiglie in lacrime. Sono passati 20 anni e quei volti li ho rivisti sabato, con un’aggravante, in 20 anni non è cambiato molto, anzi, ai loro disagi si sono aggiunti quelli di altre 352 famiglie che non vengono più considerati “civis” perché gli vengono negati i più elementari diritti garantiti a chi appartiene ad una cittadinanza. Stiamo parlando della raccolta rifiuti, della luce, delle strade, della rete fognaria, della qualità della vita. In discussione c’è l’essenza stessa dell’appartenenza ad una comunità. Non è e non sarà mai giustizia né politica di servizio quella che impiega 20 anni per diventare tale. Nei giorni della paura e degli sgomberi, nel ’92-’93, la Regione stanziò un finanziamento di 15 miliardi di lire. Oggi, dopo due leggi regionali mancano all’appello 3 milioni di euro che sono quel labile confine tra l’essere “cittadini” e l’essere sudditi, o meglio, essere corpi estranei alla collettività. Dunque nel lontano ’92 l’area smottò, franò come sabbia e le 13 palazzine di Casa Nostra, costruite chissà come e chissà con quali regole, ma pagate con il sangue delle famiglie che accesero mutui ventennali, vennero sgomberate. La Regione stanziò una serie di somme per le demolizioni e la successiva messa in sicurezza dell’area, nonché per le opere di urbanizzazione per l’intera zona dove ci sono 54 palazzine. Nel 2004, esattamente undici anni dopo sono state demolite solamente 6 palazzine su 13, lasciandone altre 7 in piedi, prede di saccheggi, occupazioni, divenute simbolo del più assoluto degrado. Undici anni per demolire la metà delle case è già un fallimento. Quegli scheletri rimasti in piedi sono fianco a fianco alle cooperative La Gazzella, Il Cerbiatto, La Rondine, Il Capriolo, nonché alla struttura sanitaria Villa Katya, in una sorta di paesaggio surreale o postbellico con le macerie accanto a palazzi che danno l’idea dell’incompiuto, del cantiere aperto. Già perché strada facendo le ultime somme stanziate per le opere di urbanizzazione sono rimaste inspiegabilmente bloccate e poi definitivamente confluite nel girone infernale dei Fondi Fas (il girone, per intenderci, dei Fondi destinati a non essere mai erogati, ad esistere solo sulla carta). Eppure dal 2006 l’intera zona è classificata “P4” e a rischio idrogeologico “R4”, vale a dire massimi indici di pericolosità, eppure c’è un progetto esecutivo che attende solo l’erogazione delle somme. Esiste in questa vicenda paradossale una diversa tipologia di ingiustizie. In cima ci sono le famiglie sgomberate che continuano a pagare i mutui per abitazioni che non abitano, alcune famiglie sono state indennizzate per i crolli, altre 40 ancora aspettano. Alcune hanno visto le loro case demolite, altre, quelle delle 7 palazzine ancora in piedi, no. Per queste famiglie il danno è maggiore, perchè hanno dovuto pagare l’Ici e ora toccherà loro l’Imu. Poi ci sono altre 352 famiglie che pagano l’Ici, l’Amam, la tassa sui rifiuti,però per vedere i camion di Messinambiente ritirare la spazzatura hanno dovuto protestare per settimane. Non hanno la pubblica illuminazione, non hanno le opere di urbanizzazione primaria, zone a verde, viabilità. Il consiglio del V quartiere ha scritto una lettera aperta alla deputazione regionale chiedendo di trovare il modo per sbloccare i 3 milioni di euro e risolvere il problema dei mutui che la gente paga nonostante tutto. All’appello hanno risposto solo gli onorevoli Filippo Panarello e Giovanni Ardizzone. Sono convinta che le presenze, esattamente come le assenze debbano avere un loro peso. L’appello del V quartiere non ha un colore politico così come non hanno un colore politico le lacrime e la rabbia di quei padri di famiglia costretti a pagare mutui, bollette, Ici, per avere polvere, sabbia, degrado. Ci sono battaglie, per quanto sia imperdonabile che siano trascorsi tantissimi anni, che devono vedere tutti i messinesi insieme. I mutui, l’Ici, i tributi locali, i servizi, non sono entità astratte, da un lato c’è il cittadino al quale viene chiesto di pagare, dall’altro ci sono uffici, dirigenti, c’è l’Unicredit, c’è il Palazzo Comunale, e poi c’è “l’intermediazione della politica”. Si sa esattamente a quali porte dover bussare, se non per i 3 milioni di euro almeno per aver garantiti i diritti più elementari ed immediati. Fa quasi tenerezza l’appello della circoscrizione nella parte finale quando si legge “abbiamo percorso tutte le strade, ma tutte le porte si sono chiuse e grande è oggi il sentimento d’impotenza politica e amministrativa, oltre che umana di fronte a 352 famiglie che ogni giorno, come ultima speranza si rivolgono a noi raccontando l’ennesimo disagio, l’ennesimo disservizio, l’ennesima violenza subita fin quasi dentro le abitazioni”. Eppure queste persone sono cittadini sempre e non solo quando pagano i tributi e quando votano, quando li si va a cercare promettendo la demolizione dei palazzi e la pubblica illuminazione. L’accorato appello del quartiere è quella civitas che si sbriciola come le case. Non ci sono cure per le ferite del passato né ricette per il domani se non quella di agire con indignazione quotidiana ufficio per ufficio, ma un invito è doveroso: quando verranno a bussare alle nostre porte, tra pochissimo, nei prossimi mesi, alla prossima tornata elettorale, promettendo le stesse demolizioni e le stesse opere mai realizzate in questi 20 anni, ricordiamoci questi giorni e queste lacrime, queste crepe e il buio delle nostre strade, ricordiamoci le presenze e le assenze, ricordiamoci che siamo citoyes e non sudditi. Rosaria Brancato

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