Nessun uomo è un’isola. Siamo tutti quell’isola chiamata Lampedusa

E’ vero, la strage di Lampedusa è una tragedia mondiale e Tempostretto è un quotidiano locale. E’ vero, in queste ore sono accesi i riflettori di tutto il mondo su quella lunga fila di morti uccisi dal sogno di una vita diversa. E’ vero, siamo la redazione di un sito cittadino, ma credo che ognuno di noi ieri, ha rivolto un pensiero di dolore, per quegli uomini, per quelle donne, per quei bambini morti anche perché non siamo riusciti a salvarli. La strage di Lampedusa ci riguarda tutti, riguarda anche noi che siamo lontani da quel pezzettino di terra e lacrime, anche noi che siamo al riparo e che oggi ci occupiamo della spazzatura, del rischio default, dell’inchiesta all’Ateneo, delle buche nelle strade. Nessun uomo è un’isola e quello che avviene oltre il nostro giardino ci riguarda tutti e non solo perché “facciamo parte della stessa umanità”, ma ci riguarda perché abbiamo responsabilità. Nell’era della globalizzazione il termine responsabilità individuale è stato anestetizzato. La globalizzazione assolve tutti, diventa un alibi a portata di mano. L’immenso non dipende da noi. Invece no, di quello che accaduto a Lampedusa sono responsabile anche io, che vivo e lavoro a Messina, ho una famiglia, un’auto, un impiego, una vita serena e miei piccoli sogni non annegano in un mare di lacrime e fuoco. E’ venuta a mancare l’assunzione di responsabilità individuale per ogni nostro gesto. Quando tutto è troppo grande ci piace credere che nulla dipenda da noi. Invece no, se ci sentiamo bravi perché su facebook siamo cittadini del mondo, se pensiamo che basta cliccare “mi piace” per essere globali, allora abbiamo il dovere di esserlo anche quando non stiamo condividendo l’ultima canzone di Ligabue o il sogno che abbiamo fatto stanotte. Ci siamo abituati a non dare peso ai nostri gesti come se non avessero conseguenze. Non mi riferisco al fatto che i morti appartengono al genere umano, ma al fatto che non ho fatto abbastanza per salvarli. Sono morti nel mio Paese, che è un paese ospitale, sono morti nella mia Sicilia, che è, da secoli, la culla dell’accoglienza. Sono morti a pochi passi da me, che sono una giornalista che ama definirsi “impegnata”, leggo, firmo petizioni, referendum, mi appassiono a battaglie sociali. Ma per evitare che quei bambini morissero non ho fatto la mia piccola parte. Se sono morti è anche perché l’Italia oggi ha una legge indegna di questo nome, una legge del 2002 che anche io ho contribuito a lasciare perché quando qualcuno protestava non ho messo una firma, non ho fatto un articolo, ho cambiato canale quando era in onda un servizio sull’argomento. Questi morti sono figli di una normativa che si gira dall’altra parte. Li abbiamo ammazzati con il nostro silenzio. Li abbiamo ammazzati ogni volta che con i nostri piccoli comportamenti quotidiani abbiamo fatto del razzismo, dell’intolleranza, dell’egoismo, l’unica molla di comportamento. L’abbiamo fatto ogni volta che risparmiamo l’euro alla filippina che ci pulisce la casa, quando ci siamo uniti al coro razzista per un calciatore dalla pelle scura, ogni volta che abbiamo comprato il corpo di una donna per strada senza chiederci quali orrori ha dovuto attraversare per finire sotto le nostre mani che le scavano la pelle. Li ammazziamo ogni volta che pensiamo che i nostri figli non trovano lavoro per colpa loro, dimenticando che i nostri figli non farebbero mai quello che fanno loro, pulendo gli escrementi dei nostri anziani, raccogliendo pomodori, salendo sui camion dei caporali per poche lire da schiavi. Li ammazziamo ogni volta che guardandoli vediamo in loro assassini, venditori di droga, ladri, stupratori e ne abbiamo paura e insegniamo ai nostri figli la legge dell’odio. Li ammazziamo ogni volta che cambiamo canale quando va in onda una tragedia raccontata da chi è sopravvissuto, quando non ci chiediamo come si vive e si muore nei centri di accoglienza, quando scrolliamo le spalle dicendo “ tanto non sono sbarcati sotto casa mia chi se ne frega”. Penso sempre con angoscia alle parole di papa Francesco a Lampedusa: “basta con la globalizzazione dell’indifferenza. E’ una società che ha dimenticato l’esperienza delle lacrime”. Le ha pronunciate due mesi fa e tutti a fare applausi e commenti, salvo poi scordarci che Lampedusa è sempre lì, la Sicilia è la terra promessa e noi non possiamo limitarci oggi a piangere e poi domani dimenticarcene e non impegnarci. Sono le scelte che fanno gli uomini, dalle scelte si capiscono gli uomini. Sapevamo tutti che con i respingimenti li mandavamo a morire nelle coste dell’Africa e della Libia, ma siccome non avveniva sotto i nostri occhi abbiamo dimenticato che per ogni barcone respinto firmavamo centinaia di condanne a morte. Li abbiamo ammazzati noi perché non abbiamo fatto niente per cambiare la legge. Mi sento colpevole per ognuno di quei morti e per quelli che ci sono stati prima e ci saranno domani. Mi sento colpevole perché da domani avrò scordato questi cadaveri di bambini che non avranno futuro e sprecherò il mio tempo a seguire le farse in Parlamento e m’ indignerò quando il leghista di turno offenderà il ministro Kyenge. Se muoiono ancora è anche colpa mia. Se non cambiamo noi non cambierà il mondo. Nessun uomo è un’isola, tutto ci riguarda, ci coinvolge, ci tocca. Perché se continuiamo a pensare che è sempre e solo colpa degli altri, del destino cinico e baro, dal fato, e che le cose non ci riguardano, uccideremo ancora qualcuno. Nessun uomo è un’isola, scriveva John Donne: “Nessun uomo è un'Isola,intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente,
una parte della Terra. Se una Zolla viene portata via dall'onda del Mare,
la Terra ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto,o una ragione amica o la tua stessa Casa. Ogni morte d'uomo mi diminusce, perchè io partecipo all'Umanità. E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:
Essa suona per te”.

Ogni morte di un uomo mi diminuisce.

Nessun uomo è un’isola. Siamo tutti quell’isola chiamata Lampedusa.

Rosaria Brancato