Diario intimo di una cameriera. Feticismo prêt-à-porter

“La depravazione dei ricchi puzza più del fetore dei poveri”. Tra anziani in reggicalze, adoratori di stivaletti e signore dedite all’autoerotismo, la cameriera Celestine passa in rassegna feticismi e degenerazioni della Belle Époque: con il sorriso sulle labbra, accondiscendendo di tanto in tanto a qualche vizio innocente, la sua presenza risveglia sopite dissolutezze in un caleidoscopio a luci rosse più faceto che serio, giostra infantile del peccato.

Da un pungente romanzo del 1900 firmato da Octave Mirbeau, il catanese Gianni Scuto presenta al Clan Off il suo Diario intimo di una cameriera, materiale incandescente già adattato per il cinema da Jean Renoir nel ‘46 e soprattutto da Luis Bunuel nel ’64 (con la splendente Jeanne Moreau e Michel Piccoli). Nessuna parentela, se non nominale, con lo spettacolo andato in scena nel teatro messinese: soppresse le stoccate all’ottusa nobiltà di inizio secolo, resta in campo una brodaglia da avanspettacolo, gag spuntate, sketch logori e abusati. Incomprensibili, in questa direzione, le battute antisemite dell’originale (vergate in pieno affare Dreyfus) nella sagra dell’immoralità allestita da Scuto, sideralmente distante da ogni approccio di tipo politico.

Nonostante un’ottima scelta di ritmi narrativi, la recitazione esasperatamente sopra le righe risulta ingrediente presto indigesto: se la prova della protagonista Barbara Cracchiolo conserva almeno il merito di restar sempre fedele alla strada intrapresa, appaiono spesso fuori sincrono e bozzettistici gli apporti di Alessandro Gambino, Domenico Maugeri e Nellina Laganà. In una baraonda che lascia molte tracce inutilmente sospese nel vuoto, la commedia sexy delle premesse scivola così nella clownerie: anche le arguzie diventano motti datati, i richiami erotici semplici schiamazzi da cabaret.

Domenico Colosi