Enrico IV. Giù dal piedistallo

Un vorticoso gioco di specchi fa convivere la tragedia e la farsa. Sullo stesso piano, indistinguibili. Carlo Cecchi riprende Pirandello e lo declina a proprio uso e consumo: senza riguardo all’etichetta, come si addice all’attore e regista fiorentino. Eliminata la banale caduta da cavallo, l’ossessione passatista di Enrico IV diviene dunque mascherata speculare alla vita, attacco irriverente alle convenzioni e al galateo. Autentica vocazione al teatro.

Nello spettacolo visto al Vittorio Emanuele, Cecchi magnifica la perversione dei rapporti di forza: quattro ragazzi precari restano abbarbicati al proprio lavoro assecondando i deliri di un pazzo, la bella società di marchesi e marchesine si cristallizza in articolate geometrie autoreferenziali. Pirandello ne esce radiosamente rischiarato da nuova luce, tradotto, tradito e collocato al pari dell’Amleto scespiriano in un complesso gioco strutturalista che annichilisce la parola per esaltare la funzione. I personaggi di contorno riprendono quindi vigore e il misantropo Enrico IV cade giù dal proprio piedistallo, trascinato nella bolgia della vita: il grande attore può solo indugiare nel birignao, offesa mortale per quel teatro pieno di sé, filologicamente corretto, inappuntabile messinscena di mille messinscene.

Con il testo di un Premio Nobel ridotto ad uno stracco canovaccio, Cecchi trova quello spiraglio di libertà per urlare il suo ironico disprezzo all’intera società dello spettacolo, alle Accademie che sfornano attori in fotocopia, ai puristi impermeabili alle novità. Una scommessa vinta a passo di fanfara con un cast di attori pienamente consapevoli (basterà citare per tutti Angelica Ippolito, Gigio Morra e Roberto Trifirò) immersi nell’elegante scenografia che Sergio Tramonti regala alla brillante farsa di un Cecchi sublimemente ispirato. Un dialogo con il classico privo di supine condiscendenze: o si fa la rivoluzione, o si muore.

Domenico Colosi