Minetti. Decadenza di una società

Per trent’anni recluso nell’insignificante Dinkelsbühl: lontano dai riflettori, un solaio come palco, attività agricole a fare da semplice corollario ad un’esistenza ferita. Nell’essersi negato alla letteratura classica il peccato originale del celebre attore Bernhard Minetti, deriso nella natia Lubecca da un senato indifferente e da una società corrotta. Contro il progresso, contro il classicismo, contro il pubblico: solo lo scespiriano Re Lear sfugge ad un’invettiva follemente persuasiva nell’incontro ideale tra anime smarrite. In uno squallido albergo di Ostenda, un logoro Minetti intrattiene due donne mentre attende di essere ricevuto dal direttore del teatro di Flensburg: infuria una tempesta di neve sulla cittadina belga, la lunga notte di San Silvestro si arricchisce di volgari presenze tra hall e corridoi. La resa dei conti in un lungo flusso di coscienza, l’ultima recita per chi osò urlare nel vuoto contro ogni forma di aristocrazia culturale.

Un tocco lynchiano pervade il Minetti. Ritratto di un artista da vecchio firmato da Roberto Andò: deformità a parte, un ritratto brutale di una società alla deriva, vittima consapevole di un edonismo crasso, rozzo, spietatamente bestiale. Una parafrasi a Joyce nel sottotitolo: non vi è differenza tra i dolori del giovane irlandese, tormentato allievo dei gesuiti, e il vecchio Minetti, vituperata carcassa dell’arte. Nel comune esilio la facoltà di percepire le sgradevoli ridondanze di un sistema intellettuale statico, stantio, abbarbicato su ridicoli conservatorismi. Come nella celebre scena dell'Uomo in nero di Georges Franju, una mascherata senza fine attraversa la scena, inquietante processione che richiama il capolavoro del più volte citato Ensor, L’entrata di Cristo a Bruxelles: né giustizieri né redentori nel dramma di Thomas Bernhard, solo il volto emaciato della sconfitta. Da qui la via che conduce alla follia, sacrificio nel silenzio, reiterazione di un processo oramai esaurito senza un pubblico da persuadere. Nell’ultimo mistero l’estrema seduzione.

Le brillanti soluzioni scenografiche firmate da Gianni Carluccio sono lo strumento ideale per esaltare l’abilità di un Roberto Herlitzka in stato di grazia: una lenta progressione verso l’eccelso nella ripetizione ossessiva dei medesimi topoi, tic verbali interiorizzati tra molesto ardore e consapevole rassegnazione. All’ombra del titanico sforzo del protagonista, Andò gestisce una materia incandescente con il consueto gusto della citazione, elegante volteggio che mai tradisce intenti e complessità. Negli scroscianti applausi finali del Teatro Vittorio Emanuele la conferma delle tesi esposte: il dialogo culturale procede lungo vie imperscrutabili, un rito iniziatico si compie ogni sera su un palcoscenico.

Domenico Colosi