I giganti della montagna. In difesa dell’arte

I giganti della montagna. In difesa dell’arte

Tosi Siragusa

I giganti della montagna. In difesa dell’arte

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lunedì 04 Giugno 2018 - 10:01

Una fiaba in un luogo e tempo sospesi ove lo spettatore si smarrisce in una atmosfera felliniana stralunata.

Dal dramma incompiuto di Luigi Pirandello, I giganti della montagna, Daniele Gonciaruk ha operato una buona riduzione, curandone altresì adattamento e regia. Gli allievi delle “Officine Gonciaruk” hanno fatto poi il resto, e appare oltremodo doveroso riportarne i nominativi, attesa la discreta recitazione posta in essere: Pina Battiato, Nicola Bombaci, Marco Dell’Acqua, Andrea De Francesco, Kevin Finocchiaro, Mara Giannetto, Federica Gugliandolo,Simone Le Donne, Aurora Macrì, Alessandra Mancuso, Giovanni Mazza, Rosalba Orlando, Rosario Popolo, Matteo Quinci, Ella Recupero, Alessandro Scipilliti, Paolo Sicali. La scenografia, essenziale, ma significante si è attestata a Arsinoe Delacroix e Riccardo De Leo; il montaggio audio a Nicola Bombaci e la sartoria a Santi Macchia e Mario Venuto (con costumi sempre in linea con l’ambientazione della piece). Le musiche, tutte non originali, hanno ben sottolineato i momenti clou della rappresentazione: si citerà solo a titolo esemplificativo “Il Padrino” e “Amarcord”.

Ciò detto, Gonciaruk ha qui stupito per la fedeltà al contesto pirandelliano, che è stato reso pressoché senza operazioni di contaminazioni e/o stravolgimenti che pure spesso sono riusciti a cogliere nel segno nell’altrove dell’artista. Gonciaruk ha creduto in questa esperienza pirandelliana, e ciò traspare, unitamente all’impegno coralmente profuso: la mise en scene, molto partecipata con plauso del numeroso pubblico presente – giova lodare quando si deve – è sicuramente riuscita. L’opera, giustamente ritenuta uno dei mitici capisaldi pirandelliani, mette in tragica luce la materialità che, già negli anni '30, l’autore aveva colto. Proprio tale mancanza di sensibilità, ove l’arte non riesce sovente a varcare i confini e penetrare entro la rozzezza, per volgerla in grazia, è centrale nella ratio del dramma. L’autore siciliano pare avesse già concepito, pur se in forma solo embrionale, quello script negli anni 20; certo è che questo dramma trae la genesi da “Lo storno e l’Angelo Centuno” e che il personaggio del lampionaio Quaqueo sia ispirato peraltro a ulteriore novella, “Certi obblighi”. Suddiviso in tre atti, il primo con intitolazione “I fantasmi”, trovò pubblicazione nel 1931 su “Nuova Antologia” e “ Dramma”, il secondo nel 1934 su rivista “Quadrante”, il terzo atto ebbe invece solo una schematica traccia, pare su dettatura dello stesso Pirandello morente, ad opera del figlio Stefano, che ne tentò una ricostruzione, cercando di coglierne le suggestioni sulle tracce della struttura svelatagli e suggeritagli dal padre. Fra le grandi rappresentazioni se ne annovera quella di Strehler, nel 1958, e di Leo de Berardinis, nel 1993. “La favola del figlio cambiato”, opera pirandelliana, dovrebbe trovare una mise en scene in teatro ad opera di una compagnia di attori, capeggiata da Ilse, magnetica contessa, ma molteplici sono le difficoltà di reperire una location adeguata. I teatranti de “La compagnia della contessa” giungono allora presso una strana villa, “La scalogna”, ove ha trovato rifugio un gruppo di poetici balordi, con in testa il mago Cotrone, che dirige i singolari prodigi che animano quella dimora. Lì sonno e veglia si confondono e i fantasmi “vaporano” e tutto può accadere, basta possedere l’innocente convinzione che i sogni, la preghiera, l’amore, la musica, l’infinito, essendosi “agli orli della vita”, con il loro distacco, permettono all’invisibile di apparire. Dopo un primo momento di disagio per quell’intrusione, che gli “Scalognati” provano a contrastare attraverso tuoni, fulmini e apparizioni, infine i commedianti sono bene accolti e Cotrone prova a convincere la contessa a declamare quel dramma – scritto per lei da un poeta che respinto si è suicidato – per gli ospiti della villa fatata. Ilse è però riluttante, vorrebbe anche che l’opera potesse incidere pur se con conflittualità e desidera portarla comunque nel mondo, fra gli uomini e Cotrone allora le propone di recitare quella favola davanti ai Giganti che, estremamente potenti e impegnati nella realizzazione di immense imprese vivono su una montagna. Quei signori, divenuti però interiormente volgari, non trovano tempo per l’arte, avendo ormai correlato la loro esistenza alla materialità. Il finale originale dell’opera, solo tratteggiato, che vedrebbe la proposta ad Ilse da parte dei giganti di allestire quella rappresentazione per il popolo, che avvolto nella miseria spirituale e nell’insensibilità, dapprima apostrofa la compagnia con durezza e arriva al fine ad uccidere gli attori, non trova posto in questo adattamento: ma resta intatto il messaggio di commiato pirandelliano in questa piece di grande spessore, metafora del pericolo di soccombenza dell’arte in questa società che tutto consuma e brucia nel susseguirsi di attimi, in una soffocante volgarità, toni sopra le righe e sopraffazioni.

In questo medioevo umano, le logiche perverse e prevaricatrici dominano i rapporti fra gli esseri umani e dolorosa si fa la mancanza di uno stato di grazia dell’ anima favorito dall’afflato artistico. I giganti della montagna rappresenta uno dei testi del 900 più emblematici e complessi da mettere in scena e l’espediente del teatro nel teatro, tipicamente pirandelliano e utilizzato nei Sei personaggi in cerca d’autore è qui al servizio del testamento spirituale del grande drammaturgo.

Tosi Siragusa

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