Il riscatto degli schiavi: “Verso il giardino dei ciliegi”

Dopo cinque anni, che paiono secoli, passati a Parigi, la signora Liubòv e la sua famiglia tornano in Russia, a casa, una grande villa con un vastissimo giardino di ciliegi, così bello e antico da essere addirittura menzionato nelle enciclopedie.

Vi trovano, ad accoglierli, Varia, la figlia adottiva, due ospiti – un uomo che legge, ed una donna vestita in modo vistoso che ha avuto “solo sette mariti” -, i domestici, Petia, cioè il vecchio istitutore e studente fuori corso ante litteram, e il commerciante Lopachin. Quest’ultimo li aspetta quasi con ansia prospettando di aiutare la famiglia, ormai messa in ginocchio dai debiti, col vendere la tenuta.

La padrona e la figlia Ania, vestite di bianco – quel bianco che Ejzenstejn associava con orrore agli zaristi –, e Leonìd, lo zio, rappresentano ciò che è rimasto dei proprietari terrieri di una Russia ormai scomparsa. Gli aristocratici fanno la fame e i figli dei servi della gleba sono milionari; Lopachin, figlio di contadini, figlio di schiavi, con tutta la volgarità dell’arricchito, deciso a riscattare il passato dei suoi avi, ridendo sguaiatamente dà la brutale notizia: “La proprietà in cui mio padre e mio nonno erano schiavi, ora è mia!”. Ancor più brutale è la logica affaristico-capitalistica: villa e giardino saranno devastati per creare degli squallidi villini per i villeggianti.

Il doppio di Lopachin è rappresentato dal vecchio servo Firs, un nostalgico della vecchia Russia; dopo la liberazione degli schiavi lui ha preferito restare con i padroni, la modernità ha solo peggiorato le cose, “E’ tutta una gran confusione, non si capisce più nulla!

Cechov scrisse “Il giardino dei ciliegi” prima della Rivoluzione del 1917 e dei suoi sconvolgimenti sociali. Il regista Daniele Gonciaruk ha chiaramente adattato il testo, facendo dei tagli scrupolosi e inserendo testi originali – specialmente nelle parti dei due ospiti, che di fatti nel testo sono assenti, e forse per questo danno un senso di straniamento che non sempre funziona -, con una colonna sonora molto ben scelta, ed ha inserito nella scenografia una cornice bianca quadrata: è un elemento che si apprezza molto e che si può leggere come una finestra che dall’esterno ci mostra il salotto del teatro borghese, nonché una finestra sull’anima e sui drammi dei personaggi.

Drammi che non si sono sentiti molto a livello attoriale: considerando che gli attori non sono dei professionisti, c’erano delle pecche, soprattutto a livello della voce, non troppo sostenuta.

La replica sarà stasera, 14 giugno, alle ore 18, al Teatro Savio.

Lavinia Consolato