Vetri rotti di un acquario: morte e rinascita in Arthur Miller

Una paralisi isterica, infermità momentanea di origine psicosomatica. Sylvia Gellburg, ebrea newyorchese di estrazione borghese, si trascina per casa sulla sedia a rotelle, il marito Phillip prova a consultarsi con alcuni specialisti per chiarire l’origine del male. L’incontro con il medico Harry Hyman svela le prime verità: una sessualità per lungo tempo repressa, la visione sofferta di alcune foto sul Times che ritraggono ebrei tedeschi piegati dagli effetti della Notte dei cristalli, l’abbandono dei sogni di gloria per amore del compagno. Sylvia è una reduce schiacciata dagli eventi, troppo fragile in una vita di equivoci irrisolti. L’arte maieutica della sensualità da una parte, il lento declino di Phillip dall’altra: morte e rinascita sono facce della stessa medaglia.

Giunto al Vittorio Emanuele nell’ultimo tratto della sua lunga tournée, Vetri rotti di Arthur Miller nell’adattamento di Armando Pugliese conserva di allettante solo la polisemia del testo: in scena una rappresentazione esausta, sfilacciata tra le parti, intorpidita nella recitazione. Elena Sofia Ricci modula con difficoltà lo spettro sentimentale di una Sylvia smarrita tra paura e risentimento, Gianmarco Tognazzi è monotono anche nei siparietti umoristici; un paio di sussulti da Maurizio Donadoni – che sembra prendere in prestito da Moni Ovadia le sfumature yiddish per tratteggiare un Phillip convincente nel suo cupio dissolvi – e soprattutto Serena Mazzone, persuasiva anche oltra la risata esplosiva d’ordinanza. Immersi nelle totemiche scene di Andrea Taddei immaginate per coniugare ellitticamente il dinamismo americano con la tetraggine di Auschwitz, i protagonisti si rintanano in varianti solipsistiche del medesimo tema: quasi pesci strappati dalla solitudine di un acquario, dapprima smarriti, poi boccheggianti.

Sentimentalismi d’accademia e angosce stereotipate sono il filo conduttore di un’occasione mancata: tra i testi meno rappresentati di Miller, Vetri rotti è anche una dichiarazione di complessità, un duello con l’antisemitismo osservato con gli occhi del nemico. “Le mie opere sono le mie autobiografie. Non riesco a scrivere drammi che non rendano conto della mia situazione, al momento. Non so come altro fare, per scrivere”, affermava l’autore statunitense. Poche tracce di questo manifesto nello spettacolo di Pugliese, bignami milleriano per cuori semplici.

Domenico Colosi