Sud. Le guerre dei cafoni

Un ordine prezioso regna sul palco: il giusto peso delle distanze, i tempi calibrati, la disposizione dei protagonisti, le scelte artistiche. Si parte da confortevoli storie pugliesi di fame e miseria, ironiche, taglienti nell’evocazione di un Meridione sempre uguale a se stesso, immobile quando non gattopardesco. Dunque le suggestioni partenopee di Eduardo, le arrembanti guerre dei cafoni di Carlo d’Amicis ed una puntata in Grecia con I persiani di Eschilo: il trionfo della democrazia sulle sopraffazioni di un potere ingordo prima di un nuovo ritorno al folklore ritmato, trascinante, liberatorio. Il dolce nella coda.

Un secolo di suggestioni meridionali nell’elegante recital dell’attore e regista pugliese Sergio Rubini, Sud, un mosaico di pezzi spuri che concorrono via via a formare una struttura unitaria pregevole per arguzia e ambizione. Una navicella lanciata nello spazio con un compendio di storie, incanti, paradossi del mondo a Sud di Roma: esemplare la magnetica parabola del mariuolo De Pretore Vincenzo a colloquio con Dio e tutti i santi del Paradiso, scherno di un ispirato Eduardo verso una predestinazione accentuata dall’assenza di governo e istituzioni. Su territori più cinematografici l’estratto da La guerra dei cafoni, graffiante ribaltamento di una meglio gioventù oziosa, assorbita da una mitologia che oscilla tra i campioni del calcio e l’idolatria dei marchi. Giunge inaspettata, in questo contesto, la mattanza della tragedia eschilea, metafora dei rischi incombenti su fragili democrazie. Passato e presente si ricompongono in un cortocircuito che investe filosofia, storia, cronaca.

Solo una parte della verità nell’efficace interpretazione di Sergio Rubini: Sud è anche uno scintillante racconto musicale per opera delle musiche jazz di Michele Fazio eseguite sul palco del Teatro Vittorio Emanuele dallo stesso pianista con il contrabbassista Marco Loddo e il batterista Emanuele Smimmo. Una sintesi compiuta che resta sempre in guardia dalla facile retorica e dall’autocompiacimento: la fame, la sete, la purezza di un mondo abbandonato a vivere unicamente del proprio genio.

Domenico Colosi