Cultura

“Acqualadrone, lì dove la bellezza splendeva prima che arrivasse il cemento”

MESSINA – Riceviamo e volentieri pubblichiamo un intervento della docente universitaria Flavia Frisone (Università del Salento) sulla storia di Acqualadrone (o Acqualadroni). Frisone insegna Storia greca e Geografia storica del mondo antico, oltre a essere impegnata nella divulgazione anche in video.

Per una volta, non ci occupiamo delle attuali emergenze che investono la zona ma entriamo in una dimensione storica.

Flavia Frisone

La storia di Acqualadrone (e non Acqualadroni)

Chi lo vedesse oggi penserebbe soltanto a uno dei tanti luoghi di villeggiatura nati dalla speculazione edilizia selvaggia che ha stravolto le nostre coste. E non saprebbe quanto si sbaglia, perché Acqualadrone (e non Acqualadroni come ora recita la toponomastica ufficiale) è uno dei più antichi borghi di pescatori della costa settentrionale del messinese, ed è stato un vero villaggio, come tanti ce ne sono nel Comune di Messina, fino a non molti anni fa. Certamente è stato un luogo la cui bellezza era rinomata e spiccava fra tutti gli altri paesini posti fra il litorale da Faro a Milazzo, almeno prima che il cemento lasciasse la sua impronta indelebile lì dove non avrebbe dovuto.

Il romanzo immortale di Eugenio Vitarelli

Lo abitava una comunità vivace e numerosa, un tempo, che ha lasciato traccia di sé perfino nella narrativa. Le storie della sua gente, infatti, sono state immortale nel romanzo Acqualadrone di Eugenio Vitarelli (1988, ora Mesogea 2013), che fra la fine degli anni Cinquanta e i Sessanta visse qualche anno in mezzo a loro e ne fu adottato. Qualcuno storse il muso a leggere come la fantasia dell’autore avesse stravolto la genuina natura di alcuni dei personaggi descritti, ma la vitalità di quella gente di mare, la sua dura e coraggiosa lotta con l’elemento che ne scandiva la vita quotidiana c’era tutta, come accade nei miti, che stravolgono la lettera per conservare la sostanza.

Miti, infatti, perché di storie narrate più che di storia accertata si nutre il ricordo della comunità ormai perduta di Acqualadrone. Storie ormai sepolte nel ricordo di chi non c’è più, di cui possiamo riacciuffare solo pochi brandelli.

La vera origine del nome: “L’acquaruni”

Storie che spiegano e confondono, al tempo stesso. Così accade, per esempio per il nome, che non dipende, come si legge di tanto in tanto sui social, dalla presenza di ladroni o pirati, “lectio facilior” influenzata dal nome della vicina Fiumara dei Corsari, ma dal fatto che qui fosse presente una o più sorgenti naturali, un punto d’acqua facile da raggiungere per chi andava per mare e anticamente aveva bisogno di far provviste d’acqua per la navigazione. “L’acquaruni” che è l’antico vero nome del paese, è infatti un toponimo come se ne trovano tanti in giro per le coste italiane dal nord a sud della penisola e che si spiega con le caratteristiche dell’antica navigazione di cabotaggio, caratteristiche che noi non conosciamo più e che perciò tendiamo a non considerare. I punti d’acqua accessibili e abbondanti prossimi a baie o ridossi in cui era facile accostare erano importanti per chi andava per mare secoli o addirittura millenni fa, e la memoria dei naviganti se li tramandava, affidandoli a toponimi e altri elementi di riconoscimento.

La sorgente “L’acqua dei porci”

I “lacquarunoti” doc sanno infatti che a ovest del paese, lungo il corso della fiumara Lavina (nome parlante!), c’era la sorgente che si chiamava un tempo “l’Acqua dei Porci” (una fonte da cui si poteva bere ancora fino a una manciata di anni fa) e l’acqua si trovava facilmente in sorgive anche dal lato opposto del paese, presso la foce del Torrente Corsari. Non è un caso, perciò, che il toponimo sia registrato, insieme con quello di Acqua dei Corsari e Capo Rasocolmo, nell’antica cartografia.

Riportati in diverse “carte” ufficiali della Sicilia fra il Seicento e fine Ottocento, questi toponimi si ritrovano addirittura in una carta disegnata sui muri della prigione dell’Inquisizione a Palazzo Steri, a Palermo, dove, in mezzo alle immagini di quella che si potrebbe definire una Cappella Sistina del dolore, appare una immagine dell’isola disegnata “a memoria” e con mezzi proibitivi da uno dei disgraziati prigionieri, che vi segnò i toponimi e gli elementi più notevoli per la navigazione ai suoi tempi.

Il mare cuore della memoria di Acqualadrone

Il mare, quindi, è il cuore della memoria di Acqualadrone. Una memoria più antica del villaggio stesso, che nasce probabilmente agli inizi dell’Ottocento da una di quelle ricorrenti e spontanee “colonizzazioni interne” che spesso si registravano nelle comunità di pescatori che popolavano le coste e le isole del nostro Mediterraneo. Una memoria che risale via via nei secoli fino almeno al I secolo avanti Cristo, epoca alla quale è possibile risalga il “rostro di Acqualadrone” elemento caratteristico di una nave da guerra romana trovato nelle acque antistanti il paese. Il reperto, che però secondo alcuni studiosi è più antico e risalirebbe al III sec. a. C., è stato associato con altri oggetti antichi, come monete ed elementi decorativi dello scafo, fra i quali torques (un collare da schiavo, che rimanda ai rematori delle navi da guerra) ritrovati al largo di Capo Rasocolmo.

Questi elementi hanno fatto ipotizzare che proprio qui sorgesse Naulòcho, una località dal nome parlante (riparo per navi) che troviamo citata presso diversi autori antichi (Svetonio, Vite dei Cesari. Augusto, 16; Appiano, Le guerre civili, V, 12, 116) fra quelle controllate da Sesto Pompeo, figlio di Pompeo Magno che animò una sorta di guerra piratica contro Ottaviano, Antonio e Agrippa fu sconfitto da questi nel 36 a.C. nella battaglia navale detta appunto “di Naulocho”.

Anche se il suolo di Acqualadrone non ha restituito reperti archeologici né alcuna traccia di frequentazione antica, la possibilità che proprio in questo punto, e nell’area del Capo Rasocolmo, sorgesse una stazione navale per il controllo della costa fra Milazzo e il Peloro, è del tutto plausibile in considerazione della specifica qualità del sito. Questo ridosso che oggi è minacciato dalla furia del mare, infatti, è in grado di offrire protezione rispetto alle condizioni meteomarine avverse e ai venti dominanti in quest’area ma ha anche straordinarie opportunità di controllo dello specchio di mare antistante, fino all’imbocco nord dello Stretto e addirittura fino a Capo Vaticano, in Calabria.

Una posizione strategica e la leggenda del covo dei pirati

Non a caso, come raccontavano i vecchi di Acqualadrone, al tempo dei bastimenti a vela le navi che dovevano imboccare lo Stretto provenendo da Milazzo e dalle Eolie venivano “prese in consegna” e guidate da terra dai piloti proprio a partire da questo punto della costa.

Acqualadrone oggi

Questa strategica posizione, rispetto alla navigazione da e per lo Stretto di Messina, può essere all’origine anche delle numerose leggende, più o meno fantasiose, che localizzano ad Acqualadrone un covo di pirati.  Alcune storie parlano di briganti comuni, altre addirittura di “corsari” saraceni. Sono leggende si ramificano e sviluppano in molti rivoli: una versione, per esempio, racconta della cattura e punizione dei pirati, che sarebbe avvenuta sul posto, dando nome a una contrada del circondario detta Repentiti (= rei pentiti), dando poi particolari dettagliatissimi quanto assolutamente non verificabili sulla presenza nella zona di parte del loro prezioso tesoro.

Un’altra versione addirittura intercetta l’agiografia di uno dei più amati patroni della città di Messina, San Placido, vissuto nel VI secolo. Un pio racconto infatti vorrebbe che fossero qui annidati i pirati vandali responsabili del martirio di San Placido, abate benedettino del monastero di S. Giovanni Battista assassinato insieme ai fratelli Eutichio e Vittorino, alla sorella Flavia e a circa trenta monaci della sua comunità. In questa rielaborazione della tradizione sacra l’unico sopravvissuto alla furia dei feroci eretici ariani, il monaco Gordiano, riuscito a salvarsi avrebbe dato l’allarme e condotto i soccorritori sul luogo del martirio dei compagni, luogo dal quale i corpi sarebbero poi stati condotti a Messina per la sepoltura.

Molto probabilmente, però, catalizzatore di tutte queste storie è il nome del Torrente Corsari, detto anche dai locali Ciumara San Petru, l’ampia fiumara che sbocca immediatamente ad est di Acqualadrone e che risale verso l’interno fino ai piedi di Massa S. Nicola. Essa, a sua volta, è così chiamata non tanto per l’esser stata via di accesso a “corsari” barbareschi venuti dal mare (per avere dei predoni comunemente definiti corsari, del resto, bisognerebbe arrivare dopo il sec. XV) ma in rapporto all’etimologia di questo termine (dal latino medievale cursarius, derivato al v. latino currere).

Flavia Frisone