Attualità

“Il caso Molinari: impedire di parlare viola la Costituzione”

Pubblichiamo una riflessione di Alberto Randazzo (nella foto), professore associato di Istituzioni di diritto pubblico (Unime) e presidente dell’Azione Cattolica diocesana, sul “caso Molinari”.

Brevi cenni sulla vicenda

È ammissibile che una contestazione impedisca ad un giornalista (e a chiunque, in genere) di esprimersi all’Università (o in qualunque altro luogo)? La risposta a tale quesito è scontata: ovviamente, no! Eppure, nei giorni scorsi, come si sa, il direttore de “la Repubblica”, Molinari, è stato aspramente contestato in occasione di un incontro, sul “Ruolo della cultura nel contesto di un Mediterraneo conteso”, che si sarebbe dovuto svolgere all’Università “Federico II” di Napoli e al quale avrebbe dovuto prendere parte anche il rettore di quell’Ateneo, Lorito.
Immediata (e molto opportuna) è stata la reazione, in segno di solidarietà, del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, a costante conferma dell’altissimo senso istituzionale che ha sempre contraddistinto l’operato del nostro capo dello Stato che, nel comunicato diramato dal Quirinale, ha sottolineato che “quel che vi è da bandire dalle Università è l’intolleranza, perché con l’Università è incompatibile chi pretende di imporre le proprie idee impedendo che possa manifestarle chi la pensa diversamente”.
In questa sede, non si intende scendere nel merito del tema che si sarebbe dovuto trattare in quel dibattito né delle posizioni delle “parti” (Molinari e gli studenti), volendo invece soffermare
l’attenzione sul fatto “in sé”, che appare di inaudita gravità. Alcuni aspetti meritano particolare attenzione.

Sulla libertà di manifestazione del pensiero

Quanto accaduto a danno di Molinari è stata una inammissibile violazione della sua libertà di manifestazione del pensiero, che è “pietra angolare dell’ordine democratico” (Corte cost. n. 84 del 1969), espressione di intolleranza. Quest’ultima non ha posto nella Costituzione italiana, che invece – come si sa – è proprio lo straordinario risultato della reazione all’intolleranza del regime totalitario.
Come si legge nell’art. 21 Cost., “tutti hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero”, ma la libertà di uno non può andare a discapito di quella degli altri. In altre parole, secondo un noto principio del liberalismo, la propria libertà finisce dove inizia quell’altrui; ragionando diversamente, non si renderebbe possibile la convivenza e vigerebbe solo la “la legge della forza”. D’altra parte, proprio per tale ragione, come la Consulta ha precisato fin dalla sua prima sentenza, il concetto di limite è insito in quello di libertà e, quindi, di diritto (v. sent. n. 1 del 1956).
Non v’è dubbio che gli studenti potessero fare una contestazione (che è pur sempre una forma di manifestazione del proprio pensiero), ma quanto fugacemente detto ora pare sufficiente a chiarire che tale comportamento non sarebbe dovuto tradursi in una prevaricazione del pensiero altrui, impedendo – in questo caso – a Molinari di esprimersi. I limiti alla libertà sancita nell’art. 21 Cost., come si sa, sono ben altri: uno esplicito (il buon costume) ed altri impliciti che si ricavano dall’intera tavola dei valori costituzionali ed, in primis, da quelli di dignità, libertà e eguaglianza.

Sulla libertà di riunione

La manifestazione organizzata dagli studenti può essere considerata una riunione “in movimento”, come tale riconducibile all’art. 17 Cost. Anche in questo caso, si può rilevare la sussistenza di due limiti generali: a norma della previsione costituzionale ora cit., le riunioni devono avvenire “pacificamente” e “senz’armi”. A quanto si apprende dagli organi di stampa, il primo limite è stato superato nella vicenda ora in commento; rispetto al secondo non si hanno notizie.
Si badi, poi, che per le riunioni in luogo pubblico occorre semplicemente dare il preavviso, entro tre giorni prima, alle autorità di pubblica sicurezza (non si tratta, infatti, di una richiesta di autorizzazione, come a volte si sente dire). Per le riunioni in luogo privato o aperto al pubblico non sussiste tale condizione.

Le “aggravanti”

Un aspetto fondamentale della vicenda napoletana è quello relativo alla sede nella quale essa si è verificata: un Ateneo che, per sua natura, è luogo primario di formazione e di diffusione della cultura. Quest’ultima, per essere genuina, non può che orientarsi al principio pluralista, alla base del nostro ordinamento. Il pensiero unico, come si sa, è incompatibile con la democrazia, che si regge – ad avviso di chi scrive – proprio sulla cultura e la partecipazione.
Quanto accaduto si è tradotto in una seria mortificazione dell’istituzione universitaria e della
sua autonomia (sancita nell’art. 33 Cost.). Ad aggravare ulteriormente, se possibile, la condotta degli studenti sembra anche la circostanza che ad essere duramente colpito sia stato il diritto all’informazione, nella sua doppia accezione, attiva (di informare) e passiva (e di informarsi).

Come ha affermato la Consulta, l’informazione (che pure deve essere pluralista), è «condizione preliminare» e «presupposto insopprimibile» dello Stato democratico (v. sent. n. 348 del 1990, ma cfr. anche la dec. n. 206 del 2019). Quale può (o deve) essere la reazione dello Stato?
Si apprende da fonti giornalistiche che il governo starebbe pensando di introdurre misure volte, in futuro, a limitare gli accessi a determinati incontri-dibattiti. Tuttavia, occorre scongiurare che il rimedio che si intende mettere in atto sia peggiore (o di eguale gravità) del male. Una soluzione come quella prospettata, infatti, non avrebbe alcun fondamento costituzionale. Se è vero che lo Stato deve mantenere l’ordine pubblico è anche vero che l’adozione di misure come quella ora paventata si trova esposta ad eccessiva discrezionalità (non facilmente controllabile), rischiando di poter tracimare in una forma di abuso di potere (tipica dello “Stato di polizia”), in netto contrasto con la Costituzione.

In altre parole, sarebbe grave rispondere all’intolleranza con l’intolleranza, tradendo lo spirito costituzionale. Non vi è dubbio che lo Stato sia chiamato a porre in essere interventi repressivi, ma solo se e quando vengono intaccati i valori costituzionali e sempre che tali misure siano esse stesse rispettose
di quei valori. Al tempo stesso, vale la pena infondere ogni energia per avviare percorsi culturali che
possano prevenire certi episodi, al fine di evitare gli inconvenienti da essi derivanti.

Il dissenso è il “sale della democrazia” nelle forme e nei limiti della Costituzione

Com’è chiaro, il dissenso (quale forma di manifestazione del pensiero e forma di partecipazione) è il “sale” della democrazia, ma esso – quale espressione della sovranità popolare –deve essere manifestato pur sempre “nelle forme e nei limiti della Costituzione” (art. 1 Cost.).
La democrazia non può fare a meno del confronto, del dialogo, tra coloro che la pensano diversamente e si nutre della sintesi tra posizioni diverse, a beneficio della coesione sociale e – in generale – dell’unità nazionale che, in estrema sintesi, si concreta – come insegnava un illustre costituzionalista, Temistocle Martines – in “quei principî nei quali si sostanzia l’idem sentire de re publica delle forze politiche che hanno dato vita all’ordinamento”.

Bisogna vigilare sulla libertà

Lo “sforzo democratico” implica una paziente opera volta ad “abbattere i muri e costruire i ponti”, secondo la celebre espressione di Giorgio La Pira. D’altra parte, si sa: “ogni regno discorde cade in rovina e nessuna città o famiglia discorde può reggersi” (Mt 12,25).
Purtroppo, quello ora ricordato è solo un ennesimo episodio, verificatosi nel nostro Paese, nel quale l’odio si è tradotto in un’azione lesiva dello spirito della Costituzione italiana. Non è possibile sottovalutare vicende del genere che, ripetendosi, possono un po’ per volta insinuare nell’ordinamento un pericoloso virus (sostanzialmente) totalitario. Come disse Calamandrei, “la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare”. Ecco perché, “sulla libertà occorre vigilare”. A questo, in definitiva, siamo tutti costantemente chiamati.

Alberto Randazzo